Non solo in Italia, ma anche in Algeria, esiste il reato di clandestinità. Che rende ancora più vulnerabili molti migranti subsahariani, discriminati e maltrattati. O espulsi brutalmente verso i Paesi di origine
Si dichiarano quasi tutti “calciatori”, li chiamano “compagni” e li trattano da “schiavi”. Tra il sogno di vite migliori – magari come quelle dei loro eroi del calcio – e la realtà di un’esistenza clandestina e disumana, passano i sentieri interrotti di migliaia di migranti arenati dall’altra parte del Mediterraneo.
I provvedimenti di chiusura, le strumentalizzazioni politiche e i discorsi xenofobi – nonché le pratiche di sfruttamento nelle vaste zone d’ombra della prostituzione e del lavoro forzato – non sono un’esclusiva della sponda nord del Mare Nostrum.
Anche dall’altra parte non si scherza. E non solo in Libia, regno del caos e meta d’inferno per centinaia di migliaia di migranti subsahariani che qui subiscono le peggiori violenze e abusi, specialmente se sei donna. Anche nella vicina Algeria, – spesso con la “discrezione” tipica di un Paese che non ama la pubblicità e che i panni sporchi preferisce lavarseli in casa propria – la vita dei migranti è tutt’altro che facile. Specialmente quando le autorità decidono di liberarsene, come è successo nuovamente lo scorso dicembre. Con metodi a dir poco sbrigativi.
Nell’ultima campagna “anti-clandestino”, che ha mobilitato massicciamente le forze dell’ordine nella capitale Algeri, sono stati “rastrellati” e spediti prima in un campo a Zéralda, 35 chilometri da Algeri, e poi ai margini di Tamanrasset – 2.000 chilometri più a sud – circa 1.500 migranti subsahariani. Per poi essere rimpatriati. Gente in fuga da Nigeria, Niger, Repubblica Democratica del Congo, ma anche da Mali, Camerun, Guinea, Liberia, Benin… Uno spaccato di Africa occidentale. Donne e minori inclusi. La «peggiore caccia all’uomo nero che si sia mai vista nei quartieri della capitale», l’ha definita un sindacato autonomo, il Snapap.
Non è la prima volta. Già nel mese di agosto dello scorso anno, i migranti subsahariani erano stati presi di mira nelle città di Ouargla, Béchar e soprattutto a Tamanrasset, dove sono stati arrestati ed espulsi circa 400 maliani, riportati a Bamako, spesso con metodi brutali.
Nel 2014, invece, era stata la città di Orano a fare da teatro a una massiccia retata. In quel caso, l’operazione avrebbe dovuto prendere particolarmente di mira i migranti del Niger, pare in accordo con il governo di Niamey. Tuttavia, le forze dell’ordine non erano andate troppo per il sottile. «Hanno rastrellato tutti i neri della città – ricorda padre Thierry Becker, prete della diocesi di Orano -. Erano stati informati molto male. E tuttavia era facile sapere dove dormivano i nigerini. Invece, hanno arrestato persino gli studenti subsahariani con i documenti in regola. Poi i teppisti ne hanno approfittato per saccheggiare tutti i loro beni».
Lo stesso è accaduto lo scorso dicembre: «Non appena ho aperto la porta mi hanno portato via – racconta uno dei migranti trasferiti nel campo di Tamanrasset – e hanno rubato tutte le mie cose: computer, frigorifero, soldi… Si sono presi proprio tutto!».
«Noi del Mali – si lamenta un altro degli espulsi – siamo trattati come bestie in Algeria. Come può un Paese africano comportarsi in questo modo con i migranti di un altro Paese africano?».
Eppure, sta proprio qui la questione. Le autorità e le forze dell’ordine possono permettersi simili operazioni, spesso in flagrante violazione dei diritti umani fondamentali, perché trovano un sostrato culturale di avversione, diffidenza e xenofobia, se non addirittura di razzismo, in molta parte della popolazione.
Già nel settembre dello scorso anno, Amnesty International aveva lanciato l’allarme sulla situazione dei migranti subsahariani in Algeria. Dopo le retate di inizio dicembre ad Algeri, l’organismo ha chiesto alle autorità del Paese di «depenalizzare l’immigrazione irregolare, adottare una legge sull’asilo e lottare contro i discorsi razzisti».
Simile raccomandazione non stonerebbe neppure in molti Paesi europei a cominciare dall’Italia, dove è tuttora in vigore il reato di clandestinità. Un reato “inutile” oltre che “dannoso”, che rende ancora più difficile perseguire i veri criminali e i trafficanti di esseri umani.
«I migranti – denuncia Amnesty International a proposito della situazione algerina – continuano a essere estremamente vulnerabili a causa della criminalizzazione dell’immigrazione irregolare». Questo fatto si ripercuote anche su coloro che, in qualche modo, cercano di aiutare queste persone in difficoltà. A Tamanrasset, quelli che hanno aperto le loro case a migranti, rifugiati e richiedenti asilo sarebbero stati minacciati dalla polizia senza distinzione.
In Algeria, ad aggravare la situazione, c’è anche il fatto che i rifugiati e i richiedenti asilo, riconosciuti dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), non godono di alcuna protezione, mentre un progetto di legge sul diritto d’asilo si fa attendere da oltre cinque anni. E così tutti e indistintamente vengono spesso trattati senza alcun rispetto o come se fossero dei veri e propri criminali.
«La criminalizzazione dei migranti – insiste Amnesty – rende queste persone facilmente vittime di violazioni dei loro diritti, perché impedisce loro di denunciare abusi per paura di essere processati, imprigionati o espulsi». Per questo l’organismo internazionale chiede al governo algerino di abrogare gli articoli specifici della legge sull’immigrazione.
Le stesse raccomandazioni sono state fatte all’Italia, sia dall’interno – a cominciare da diversi magistrati – che dall’esterno del Paese, ad esempio dalla Corte Europea, secondo la quale l’ingresso irregolare dei migranti non può essere sanzionato con il carcere. Nel gennaio del 2016 si era andati vicino alla depenalizzazione dell’immigrazione irregolare, ma la misura è stata stralciata all’ultimo momento. Per ragioni meramente di opportunità politica.
Ma se la propaganda contro l’immigrazione clandestina si nutre spesso di slogan volgari e abietti, nella realtà – in Italia come pure in Algeria – non ci si fa troppi scrupoli a sfruttare quella stessa immigrazione per garantire lavori che altri non vogliono fare o come manodopera a basso costo. Magari in condizioni di grave sfruttamento e mancanza di diritti.
«Ci sono cantieri ovunque, qui ad Algeri – denuncia un giovane guineano -. Viviano in cantieri abbandonati e lavoriamo in cantieri in corso. La nostra vita si riduce a questo. Trasportiamo sacchi di sabbia e di pietre. Facciamo quello che nessuno vuole fare. Ma non abbiamo scelta. Sono i soli che accettano di far lavorare dei clandestini. Ci chiamano camarade, “compagni”, ma abbiamo l’impressione che significhi “schiavi”».