Dacca ha annunciato l’intenzione di ricollocare sull'(inospitale) isola di Thengar Char, nel Golfo del Bengala gli oltre 66mila profughi arrivati da ottobre. Adottando la stessa politica già seguita dall’Australia a Manus e a Nauru
La persecuzione dell’etnia Rohingya – che sembra aggravarsi con il passare del tempo – è esemplare per l’accanimento nei suoi confronti e per l’incapacità della comunità internazionale a trovare una soluzione. Ancor più da quando – nella già intricata situazione di questa minoranza in un Paese, il Myanmar, che non la considera parte della propria popolazione – si sono inserite tensioni tra la buddhista Yangoon e i Paesi musulmani che chiedono una soluzione equa per i loro correligionari. E la decisione del Bangladesh che ha deciso di chiudere le proprie frontiere e di procedere al rimpatrio per quelli di più recente arrivo e di segregazione per gli altri dopo decenni di accoglienza.
Davanti all’ingresso di altri 66mila profughi dallo scorso ottobre, il governo di Dacca ha comunicato di voler procedere con la ricollocazione di decine di migliaia di Rohingya sulla remota isola di Thengar Char, nel Golfo del Bengala, da tempo individuata per le sue caratteristiche utili alla segregazione e al controllo dei profughi (attualmente è accessibile solo nei mesi invernali), ma da molti considerata troppo esposta alle alluvioni e sostanzialmente inabitabile. Nonostante l’impegno di riforestazione delle autorità buona parte dei 2.430 ettari di terra emersi sono infatti allagati ogni anno nella stagione monsonica.
Un comitato che sarà costituito con l’attiva partecipazione della polizia «contribuirà a gestire il trasferimento di individui sia registrati come profughi dal Myanmar sia non registrati a Thengar Char presso l’isola di Hatiya nel distretto di Noakhali», segnala l’ordinanza governativa del 26 gennaio. Dovrebbero essere 32mila i Rohingya destinati all’isola, ma su questo, come sui tempi del trasferimento non vi sono ancora certezze. Il progetto non è nuovo e la volontà di muovere almeno una parte dei Rohingya dai campi della regione di Cox’s Bazar all’isola nell’estuario del fiume Meghna potrebbe aprire la via a un alleggerimento dei campi attuali, presso il confine con il Myanmar, nell’unica area a vocazione turistica del Paese. Potrebbe essere però un nuovo drammatico capitolo per i profughi, quello di una segregazione che ne impedirebbe del tutto ogni prospettiva e rapporto con i bengalesi
Come si legge nell’ordinanza che stabilisce la segregazione «i profughi, se identificati all’esterno delle aree loro assegnate, dovranno essere arrestati o rimandati nei campi».
L’idea di un campo senza reali strutture di ospitalità, ma anche senza installazioni di controllo dato l’isolamento naturale, non è nuova. Per anni, la politica immigratoria australiana si è basata su questo caposaldo. Prima, con il trasferimento sull’Isola di Christmas di tutti i boat-people intercettati in prossimità o dentro le acque territoriali australiane; poi, negli ultimi anni, in due campi offshore in cui far confluire anche gli ospiti di Christmas: quello sull’isola di Manus, parte della Papua-Nuova Guinea, e quello nella repubblica isolana di Nauru.
Sono al momento 2.500 gli “ospiti” di queste strutture, esposti non solo a condizioni ambientali sfavorevoli e attese anche di anni prima di conoscere la propria sorte, ma anche a rivolte, tensioni e violenze, con aggressioni e stupri che non hanno risparmiati i bambini. Ultima vittima nel campo di Manus un cittadino sudanese trovato senza vita il 27 dicembre scorso. Una situazione denunciata e condannata molte volte, che ha spinto dallo scorso anno il governo australiano a cercare nuove collocazioni per i boat-people e svuotare così le strutture attuali. Uno degli accordi firmati è stato con Washington. Un accordo che prevede di scambiare 1.250 profughi di provenienza mediorientale, africana, asiatica meridionale e del Sud-Est asiatico con altri di origine centramericana. Un accordo che include cittadini anche di Paesi ora nella lista di proscrizione temporanea dell’amministrazione americana, che è stato al centro di una tempestosa telefonata il 29 gennaio tra il presidente Usa Donald Trump e il premier australiano Douglas Trunbull. Trump si è dichiarato contrario all’accordo che, in un successivo messaggio su Twitter, ha definito “stupido”.