La Corte Suprema ha confermato la richiesta di impeachment, votata dal parlamento a dicembre. Ma dietro alle accuse di corruzione contro la presidente c’è anche il nodo dello strapotere dei grandi gruppi impenditoriali sul Paese
La Corte Suprema di Seul ha emesso il suo verdetto su Park Geun-hye, la presidente della Corea del Sud al centro di uno scandalo con accuse di corruzione. Il tribunale ha accolto la richiesta di impeachment, votata dal parlamento il 9 dicembre: il voto favorevole espresso all’unanimità segna la fine della presidenza per la figlia dello storico leader Park Chung-hee, eletta a sua volta alla guida del Paese nel 2013. Il Paese andrà a nuove elezioni che si terranno entrò due mesi. La decisione è avvenuta al termine di una giornata scandita da nuove manifestazioni a Seul, funestate anche dalla morte di due persone.
La presidente della Corea del Sud era da mesi ormai nell’occhio del ciclone per via delle accuse nei confronti della faccendiera Choi Soon-sil, sua confidente e fulcro nella raccolta di «donazioni» che mascheravano un’attività estorsiva verso grandi e potentissimi gruppi imprenditoriali. Non è un caso che proprio in queste stesse ore abbia preso il via anche il processo nei confronti di Lee Jae-yong, il vice-presidente nonché erede della Samsung, arrestato alcune settimane fa con l’accusa di corruzione.
Questa vicenda che appassiona e divide l’opinione pubblica sudcoreana e ha portato milioni di cittadini a manifestare contro l’establishment e la presidente, sta segnando una nuova e diversa sensibilità verso il fenomeno della corruzione in Corea del Sud. Erodendo di fatto la sostanziale «intoccabilità» goduta finora dai leader dell’imprenditoria e dai loro referenti politici.
La Samsung – che con un valore di 281,2 miliardi di dollari ha un fatturato equivalente a più di un quarto del Prodotto interno lordo del Paese – avrebbe esercitato una forte azione di lobby sul governo per garantirsi nel 2015 una fusione tra le consociate Samsung C&T e Cheil Industries, finanziata con l’equivalente di 25 milioni di dollari dal fondo pensionistico nazionale. Denaro mediato pare dalla signora Choi Soon-sil, confidente della presidente, e in parte finito in iniziative da lei controllate.
Le indagini iniziate la scorsa estate e sfociate nel suo arresto, hanno dipinto Choi Soon-sil come il «burattinaio» della scena, anello di congiunzione tra interessi economici e malaffare politico. Un personaggio in grado di indirizzare diverse iniziative della presidenza nell’ultimo quadriennio. Arrivando, nel suo ruolo di amica e confidente, persino a ottenere informazioni riservate fatte poi filtrare più volte all’esterno della cerchia presidenziale.
Non è un caso, probabilmente, che la Samsung abbia ulteriormente rafforzato la sua struttura proprio nel periodo della presidenza Park, avviata nel febbraio 2013. Una presidenza che pure, tra le sue priorità politiche, aveva indicato l’obiettivo di imbrigliare lo strapotere dei grandi conglomerati produttivi, favorendone viceversa il frazionamento.
Per anni, Choi Soon-sil (che per questo si è guadagnata il soprannome di «Rasputin coreana») avrebbe usato la sua vicinanza alla presidente per intascare da aziende del calibro di Samsung, Hyunday e Lg, contributi per fondazioni da lei controllate, usandone i proventi per fini personali. Un’ingerenza e un’avidità arrivate al punto – sostiene l’accusa – di fornire ai suoi benefattori accesso a documenti governativi top-secret. Davanti alle accuse confermate da diverse testimonianze, la Samsung prima ha tentennato; poi ha ammesso di aver contribuito alle iniziative controllate da Choi, ad esempio finanziando l’acquisto di un cavallo per la figlia della faccendiera, Chung Yoo-ra, appassionata di equitazione e imprenditrice del settore, arrestata il 2 gennaio in Danimarca su mandato dei giudici sudcoreani. Contributi richiesti, forse estorti, ma che per i vertici aziendali non sarebbero stati concessi in cambio di favori politici.
Quello attuale è solo il più grave di una serie di scandali che hanno minato il «sistema» sudcoreano. Per esempio la Hyundai Motor Group aveva già «sanato» con la donazione dell’equivalente di un miliardo di dollari la pena a tre anni di carcere per appropriazione indebita riconosciuta nel 2007 al suo presidente, Chung Mong-koo. Per i giudici, nonostante le responsabilità accertate nello storno di 100 milioni di dollari dalle finanze aziendali, «il suo ruolo per l’economia sudcoreana» era tale da «non potere essere incarcerato». E nel 2014 l’accusa di aggressione si era tradotta per Kim Seung-youn – presidente di Hanhwa Group, colosso della chimica e delle assicurazioni e nono conglomerato del Paese – a una condanna a 18 mesi di carcere con la condizionale. In quell’occasione a «salvare» Kim dalla detenzione era stata la sua partecipazione all’udienza conclusiva in camice ospedaliero e con certificato medico che ne attestava l’incerto stato di salute. Diverso perché di minore impatto mediatico ma comunque significativo del malaffare diffuso, anche il caso di Jeon Goon-pyo, capo dell’Agenzia delle imposte nazionale: per lui i magistrati hanno chiesto l’arresto a gennaio per avere ottenuto mazzette per facilitare alcune promozioni di funzionari. Si tratta del primo caso emerso nell’ente dalla fondazione 41 anni fa.
Una situazione generale, insomma, che segnala con urgenza il bisogno per il Paese di un cambiamento radicale. La rapidità con cui le cose si sono mosse dalla scorsa estate sconcerta gli osservatori, ma con ogni probabilità esprime il sentire comune, un’urgenza che i procuratori raccolgono e ripropongono in base a leggi finora spesso disattese. Le conseguenze – dirette e indirette – di questo stato di cose sono concrete e non solo in termini di etica imprenditoriale o di morale del sistema pubblico. La più giovane e la più forte tra le «tigri» economiche dell’Asia – al quarto posto tra le economie continentali e all’11° tra quelle mondiali – vive limiti e dubbi, crescenti discriminazioni e nuove povertà. Disagio e fenomeni di emarginazione si manifestano in modo sempre più evidente fin sotto le luci di Gangnam, il quartiere alla moda di Seul cantato qualche hanno fa in una hit dal rapper sudcoreano Psy.
Di fronte alla vicenda di Park Geun-hye anche i cattolici – minoranza che rappresenta l’11 per cento della popolazione complessiva – hanno svolto un ruolo attivo in queste settimane. La Chiesa ha reclamato da subito le dimissioni di Park, chiedendo di avviare una concreta moralizzazione del mondo politico e imprenditoriale. La Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale cattolica coreana ha diffuso già dal 1° novembre un comunicato di condanna per lo scandalo Choi, chiedendo alla presidente Park di assumersi la piena responsabilità, di pentirsi e di rispettare la volontà dei coreani. Diocesi e persino seminari si sono mobilitati a partire dal 7 novembre, ad esempio con la Messa speciale nella cattedrale di Kwangju presieduta dall’arcivescovo ausiliare Simon Ok Hyun-jin, seguita da un corteo di protesta di un migliaio di cattolici. Poi è toccato alla diocesi di Jeonju, a quelle di Daejion e Masan fino a una grande concelebrazione congiunta delle diocesi di Seul, Uijeongbu e Suwon tenuta nella piazza Gwanhwamun, uno tra i luoghi più significativi della capitale. La posizione della Chiesa è stata espressa con chiarezza da padre Taegon Andrew Yim Sang-kyo: «Il cosiddetto Choi Soon-sil Gate mostra la tragica situazione della Corea – ha ammonito – e noi cattolici dobbiamo pregare per questo Paese dove la democrazia è a rischio».