Minacciato per il suo impegno in favore dei migranti, candidato al Nobel per la Pace, padre Alejandro Solalinde racconta l’intreccio tra criminalità, tratta e corruzione. E il 21 maggio sarà al Pime di Milano
«Ci risiamo. Li ho fatti arrabbiare di nuovo». Il messaggio gli arriva proprio durante l’intervista. Mentre parla, padre Alejandro Solalinde ha lasciato il telefonino a uno dei quattro agenti di scorta che cercano di proteggerlo dal 2011. «Così può avvertirmi in caso di emergenza», spiega. Il poliziotto lo fa. Si avvicina con fare circospetto e mostra il messaggio, recapitato via Twitter. Nel breve video, si vede un foglio bianco su cui è scritto il suo nome: Alejandro Solalinde Guerra. Sopra una fila di proiettili. Una voce camuffata spiega, a scanso di equivoci: «O ti tappi la bocca padre o te la tapperemo noi».
Non si tratta di uno scherzo di cattivo gusto. L’intimidazione è in perfetto “stile narcos”. Gli agenti sono visibilmente preoccupati. Lui no. Reagisce con una battuta. Poi aggiunge: «Ci ho fatto l’abitudine». Questo sacerdote di 72 anni ha collezionato parecchie minacce di morte: i signori del narcotraffico messicano hanno offerto somme via via crescenti, fino a un milione di dollari, al sicario che l’avesse eliminato.
Gli attacchi delle mafie a preti, religiosi, catechisti sono diventati drammaticamente comuni nel Messico della narcoguerra. I media hanno ribattezzato così il conflitto – non dichiarato quanto reale – che, da dieci anni, devasta il Paese. I vari gruppi criminali – cresciuti nell’ultimo mezzo secolo grazie alla protezione e alla connivenza di interi pezzi di istituzioni – si affrontano per il controllo delle rotte del narcotraffico mondiale. A colpi di massacri. L’elenco delle vittime, perennemente incompleto, parla di 250 mila morti ammazzati, 27 mila desaparecidos, centinaia di migliaia di sfollati. I narcos si combattono l’un l’altro con l’aiuto di settori corrotti dello Stato. A restare completamente indifesa è, invece, la popolazione civile. Per cui, spesso, specie nelle comunità rurali, i sacerdoti sono l’unico punto di riferimento. Ciò spiega perché questi ultimi siano diventati un bersaglio, proprio come gli attivisti per i diritti umani e i giornalisti. Da otto anni, il Messico è la nazione più pericolosa al mondo per svolgere il ministero sacerdotale. Dal 2014, in particolare, sono stati massacrati quindici preti. Molti di più sono vittime di sequestri-lampo, aggressioni, vere e proprie campagne di diffamazione.
Contro padre Solalinde c’è, tuttavia, un accanimento particolare. Colpa del “giro d’affari” che, dal 2007, il sacerdote ha contribuito, in modo determinante, a mandare all’aria: i sequestri di migranti nell’Istmo di Tehuantepec, nel Sud del Paese. A dispetto dell’immaginario comune – e della retorica del presidente statunitense Donald Trump -, il Messico non è solo terra di emigrazione. È punto di passaggio obbligato del mezzo milione circa di centroamericani che, ogni anno, cerca di raggiungere illegalmente gli Stati Uniti per sfuggire alla violenza dilagante di Paesi come El Salvador, Honduras e Guate-mala. Gran parte – almeno diecimila ogni sei mesi, secondo le cifre più caute -, invece, finisce nella rete dei narcos.
Padre Alejandro, gli irregolari centroamericani sono persone povere. In che modo i narcos possono trarre profitto dalla loro cattura?
«I signori del narcotraffico vedono la realtà in termini di possibile guadagno. Tutto è merce per loro, incluso l’essere umano. Non si limitano a trafficare stupefacenti: diversificano il business per massimizzare il profitto. In questa ottica, i migranti sono un bottino ambito: “rendono” in media 50 milioni di dollari l’anno. Come? Li catturano a decine durante il tragitto. Poi, fanno una prima “selezione”: gli anziani “inutili” sono immediatamente assassinati. Quanti hanno un parente o un amico negli Stati Uniti vengono costretti a chiamarlo. Quest’ultimo ascolta in diretta telefonica le urla del congiunto mentre viene seviziato. Quando arriva la richiesta di riscatto – tra i 2 e i 7 mila dollari, perché comunque non potrebbero dare di più – chi si trova dall’altra parte del filo è determinato a pagare. A costo di indebitarsi per il resto della vita. Gli ostaggi più giovani e robusti sono reclutati a forza dai narcos e impiegati come carne da cannone negli scontri con i rivali. Le donne vengono “rivendute” nel mercato della prostituzione, i bambini in quello della pedofilia o delle adozioni clandestine. Infine, se la mafia ha gli agganci giusti, gli irregolari vengono utilizzati come “riserve d’organi”. So per certo di sedicenti “cliniche” lungo il confine, dove un rene o un fegato valgono tra i 100 e i 150 mila dollari. E ho visto con i miei occhi cadaveri di migranti a cui erano stati praticati numerosi espianti. Non sono l’unico. Anche le autorità lo sanno. Finora, però, hanno fatto ben poco per proteggere gli irregolari».
Che cosa può fare un prete di fronte a mafie tanto potenti, annidate nel cuore stesso dello Stato?
«Risiedevo vicino a Ixtepec, nell’Oaxaca. Uno dei punti di passaggio dei migranti: là transitano i treni merci che vanno a Nord. Il viaggio non è diretto. La locomotiva arriva e si ferma. A proseguire sarà un’altra. Non si sa quando: il prossimo treno può arrivare fra ore, giorni, anche una settimana. Nel frattempo gli irregolari attendono alla stazione, alla mercé dei narcos. Li avevo visti tante volte. Non li avevo mai, però, davvero guardati. Una mattina, all’improvviso, l’ho fatto: di fronte a me c’erano donne, uomini, bambini, indifesi, impauriti, abbandonati. Non sono più riuscito a voltarmi dall’altra parte. Sono andato dal vescovo e gli ho chiesto il permesso di lasciare la parrocchia e dedicarmi a tempo pieno agli irregolari. Alla fine, me l’ha concesso. Avevo già 62 anni e, fino ad allora, ero stato un “prete borghese”: amavo gli studi, i viaggi, la vita comoda. Eppure mi mancava qualcosa: non riuscivo a trovare il mio modo di essere sacerdote. Dio mi ha fatto incontrare i migranti perché lo scoprissi. Certo, non sapevo in che vespaio mi sarei infilato…».
Quando l’ha capito?
«Quando è nata l’idea della casa-rifugio Hermanos en el Camino di Ixtepec: un luogo dove i migranti fossero al sicuro dalle mafie in attesa di proseguire. Nessuno la voleva. Non solo i narcos. Le autorità corrotte hanno cercato di mettermi i bastoni fra le ruote in ogni modo: mi hanno minacciato, picchiato, perfino arrestato. Una volta, quando avevamo aperto da poco la struttura, hanno sobillato la folla perché incendiasse Hermanos en el Camino».
A dispetto di tante difficoltà, però, la casa-rifugio ha appena festeggiato il decimo anno di vita. E la sua presenza, unita alla mobilitazione da lei promossa, ha costretto i narcos a sospendere i rapimenti in quella zona…
«Purtroppo, però, li hanno spostati più a Nord. Mi piacerebbe dire che i rapimenti sono finiti. Ma non è così. In media, ogni anno, passano per il rifugio 20 mila irregolari. La composizione dell’esodo è mutata: man mano che la violenza in Centro America è aumentata, è cresciuta la percentuale di donne e minori non accompagnati. I rischi per questi ultimi sono ancora maggiori. Per tale ragione, dallo scorso anno, abbiamo creato nella capitale un centro che li aiuti a ottenere l’asilo e a fermarsi in Messico, completando gli studi e apprendendo un mestiere».
Per il suo impegno, quest’anno, il suo nome è stato incluso dal Comitato di Oslo nella lista dei candidati al Premio Nobel per la Pace.
«È un onore grande almeno quanto la responsabilità. Il denaro non mi interessa: ciò che ho, lo condivido con gli irregolari. La fama ancor meno. Sono, però, felice della scelta di Oslo perché mi rende più forte agli occhi dell’opinione pubblica per difendere i diritti dei migranti».
L’elezione di Trump alla Casa Bianca e la sua determinazione nel costruire il muro lungo la frontiera tra Messico e Usa hanno riportato violentemente all’attenzione globale la questione dei migranti. Al di là della retorica, quale sarà il reale “effetto Donald”?
«Trump è una figura di passaggio. Non credo che durerà a lungo: le sue prese di posizione sono scomode per lo stesso establishment statunitense. In ogni caso, muro o non muro, il presidente perderà la guerra con i migranti. Questi ultimi sono più forti. Perché Dio cammina al loro fianco. I migranti sono una luce nel buio del sistema dominante che ha tolto dal proprio centro il Signore della vita e l’ha sostituito con l’idolo-denaro. Il loro mettersi in marcia è un atto di fede nel futuro. E questo richiede coraggio. Molto coraggio. Quel coraggio che noi, perennemente spaventati dall’incubo di perdere soldi, benessere e certezze, abbiamo perso. E il terrore ci rende ancor più schiavi di questo sistema disumanizzante. Ci hanno fatto credere alla falsa dicotomia: “O noi o loro”. La mano tesa degli indocumentados ci dà l’occasione di sperimentare ciò che il Vangelo insegna: “noi e loro”. Insieme. Certo, il prezzo della migrazione è alto. Gli irregolari lo pagano sulla propria pelle, con indicibili sofferenze che, purtroppo, ora, la politica trumpiana sta facendo aumentare. Una cosa, però, è certa: Trump non fermerà il flusso. Non ci sono riusciti i narcos, con la loro carica di atrocità. Non lo farà ora una barriera, per quanto alta e inespugnabile Washington si sforzi di costruirla».
L’esodo nel continente americano, seppure più antico, è ben poco conosciuto in Europa. Quest’ultima è concentrata sulla propria crisi migratoria. Eppure, da quanto accade tra Messico e Stati Uniti, il Vecchio Continente potrebbe trarre importanti lezioni. Per lo meno su cosa non fare…
«Come costruire muri. I muri non servono. C’è di più. La migrazione è un segno forte dei tempi, a livello globale. Il flusso dalla Siria e dall’Africa rappresenta una “provocazione storica” per l’Europa. Quest’ultima è costretta a definirsi. A ripensare le proprie radici e la propria identità. Se vuole restare la patria dei diritti umani e non solo un enorme mercato, non può voltare le spalle ai migranti».
Padre Alejandro, lei è nel mirino dei narcos. Non ha paura di essere assassinato, come molti dei suoi confratelli?
«Non ho paura. Ho fede in Dio. Ed è la fede nel Dio della vita e nel suo progetto per il mondo – il Regno – a spingermi ad andare avanti. Altrimenti non potrei. Non sono un uomo particolarmente buono o coraggioso. Non sono un supereroe. È la Grazia a spronarmi. Ad accompagnarmi nei momenti difficili, dandomi forza. Ad educarmi a una fede incarnata nella storia, per quanto complicata e cruenta essa sia. Se smettessi di denunciare gli abusi perpetrati sui più indifesi tra i miei fratelli – i migranti, appunto -, tradirei il mio ministero. Questo mi fa più paura dei narcos e dei loro complici all’interno delle istituzioni».
A TUTTAUNALTRAFESTA CON IL SUO LIBRO
La testimonianza di padre Alejandro Soalinde sarà uno dei momenti più importanti dell’edizione 2017 di Tuttaunaltrafesta, la fiera del commercio equo e solidale organizzata dal Centro missionario Pime di Milano. Domenica 21 maggio, alle ore 16, padre Solalinde presenterà insieme a Lucia Capuzzi, giornalista di Avvenire e autrice di quest’intervista, il libro «I narcos mi vogliono morto» in cui per l’editrice Emi insieme raccontano la storia di questo prete di frontiera contro i trafficanti di uomini nel Messico di oggi. Un’occasione per ascoltare direttamente dalla voce di un testimone l’umanità che il muro al confine con gli Stati Uniti vorrebbe nascondere prima ancora che fermare.