Giovani controcorrente. Hanno studi e competenze elevate e scelgono il continente africano per costruire il loro futuro personale e professionale. «Perché è lì che, in questo momento, tutto succede!»
Un blog per cambiare lo sguardo. Prima di tutto. Perché quando l’Africa cominci a frequentarla, a viverci e lavorarci, inizi anche a vederla in modo diverso. Non più i soliti cliché e luoghi comuni, i tanti pregiudizi o le vecchie categorie manichee – afro-pessimismo, afro-ottimismo… -, “scatole” un po’ asfittiche in cui comprimere un continente di 54 Paesi e oltre un miliardo di abitanti. Un continente di popoli, culture e tradizioni diversi, di dinamiche complesse e contraddizioni enormi. E con una grande tensione verso il futuro.
E allora – prima di tutto – per cambiare lo sguardo, occorre cambiare la narrazione. È quello che sostiene Martino Ghielmi, 31 anni, che – dopo una laurea in Relazioni internazionali, un master in Studi africani e un’esperienza come consulente aziendale – nel 2013 ha iniziato a collaborare con l’Alta Scuola Impresa e Società (Altis) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che nel 2015 ha avviato la Fondazione E4impact, dedita a formazione e imprenditoria nel continente. Dallo scorso marzo, Martino ha lanciato anche un blog, per promuovere l’Africa come grande occasione per gli italiani, soprattutto per giovani in cerca di nuove opportunità di vita e di lavoro.
“Vadoinafrica” si propone dunque come il primo blog italiano che cerca di presentare il continente come una nuova promettente frontiera per il lavoro e la creazione di start up.
«Il blog – spiega Martino Ghielmi – vuole essere innanzitutto una community in cui i giovani si confrontano sulla possibilità di vivere e di lavorare in Africa, esattamente come farebbero, pensando all’America, all’Australia o a qualsiasi altro Paese del mondo».
Non si parla dunque di cooperazione, volontariato o di occupazione nella vasta galassia dell’umanitario, ma proprio di investire in Africa, di costruirci una carriera, intercettando le dinamiche di crescita locali e globali, i settori più innovativi – soprattutto quello dell’Information and Communications Technology – ma anche quelli fortemente bisognosi di innovazione, come quello dell’agrifood. Purtroppo in Italia – sostiene Martino – è quasi impossibile parlare d’Africa senza far riferimento a guerre, povertà e malattie. Certo, non bisogna dimenticare tutta quella parte del continente che soffre e che continua a essere sfruttato. Né sminuire il lavoro di chi in Africa realizza progetti di solidarietà. Ma occorre anche uscire dalla retorica del “continente alla deriva” o del “continente da aiutare”. O, per lo meno, penso che si debba provare a dire anche altro. Viaggiando in Africa in questi anni e lavorando con le università locali su corsi e progetti che promuovono l’imprenditoria, mi sono reso conto che il continente sarà sempre più importante nel futuro del mondo e anche dell’Italia».
Ne è assolutamente convinto anche Fabio Tarantini, 42 anni. Dopo aver operato per un decennio nel settore bancario, ha deciso di cambiare vita e oggi lavora come consulente per l’inclusione finanziaria in una quindicina di Paesi d’Africa e Medio Oriente: «L’Africa – dice – è il luogo dove, in questo momento, tutto succede! Ogni tanto, mi sembra di tornare agli anni Ottanta, quando anche in Italia si respirava questa possibilità di futuro».
Il dato anagrafico, già in sé, fa la differenza. Mentre in Italia l’età media sfiora ormai i 45 anni, in Africa è attorno ai 20. Facilmente si intuisce dove “pulsa” il futuro del pianeta. Ma anche i dati macroeconomici sono incoraggianti. Il continente, pur con tutte le sue diseguaglianze e sperequazioni – ci sono pur sempre alcuni dei Paesi più poveri al mondo – cresce stabilmente e in maniera significativa. L’Africa, dicono gli esperti, è “on the move”, si muove e va avanti, in tutti i sensi. Nonostante i contraccolpi legati al crollo dei prezzi del petrolio e di altre materie prime – e malgrado scarsità di infrastrutture, conflitti, carestie e corruzione – almeno sette Paesi africani si sono segnalati nel 2016 tra quelli economicamente più dinamici a livello mondiale. L’area subsahariana è cresciuta del 4,4 per cento, seconda solo all’Asia. E Paesi come l’Etiopia hanno fatto registrare un +10% del Pil, meglio di Cina e India. E se l’Europa continua ad avere un approccio più sbilanciato sulla cooperazione che sull’investimento (con soli 3,5 miliardi e un piano Junker di 44 miliardi ancora da definire), la Cina sta già investendo più di 200 miliardi di dollari e anche gli Stati Uniti hanno manifestato nuovo interesse con una crescita del 70% degli investimenti e un ambizioso progetto denominato Power Africa di oltre 52 miliardi di dollari, per raddoppiare l’accesso all’energia elettrica nella regione subsahariana.
«Le parole d’ordine oggi in Africa sono agribusiness e tech», sostiene Federico Tonelli, bocconiano “convertito” all’Africa. Da quasi quattro anni si è trasferito sulle rive del lago Vittoria in Uganda, passando proprio per il master di E4Impact a Kampala. Ventisei anni, originario di Riva del Garda (Tn), Tonelli ha creato con due soci una promettente impresa: iFishFarm, un progetto di piscicoltura, in bilico fra tradizione e alta tecnologia.
«Ho cominciato con uno stage presso un’associazione composta da una ventina di imprenditori italiani che vivono in Uganda. Lavorando con loro ho compreso le immense opportunità di questo contesto, mentre, a contatto con le nostre ong, mi sono reso conto di come la promozione di uno sviluppo sostenibile sia l’unico modo per costruire davvero una solida reputazione e ottenere ottimi riscontri sul mercato. Di qui l’idea di iFishFarm, una vera e propria “impresa sociale” con importanti ricadute formative e occupazionali per i giovani di Bugala Island, sul lago Vittoria: l’obiettivo, infatti, è di arrivare a 200 dipendenti in due anni. Il progetto si basa su Metajua un software sviluppato da un’azienda ugandese, che applica i big data all’agricoltura locale. Veramente un’app fantastica. Ne sentiremo parlare anche fuori dall’Uganda».
Non sarebbe il primo caso. È, infatti, andato ben oltre i confini del Kenya (e dell’Africa orientale) il modello “M-Pesa”, il servizio ideato dieci anni fa da Safaricom – consociata di Vodafone – che consente a quasi 30 milioni di clienti di usare il cellulare per far circolare soldi, ma anche per acquistare cibo e servizi. Si stima che circa il 30 per cento del Pil del Kenya venga processato attraverso M-Pesa! E sempre in Kenya esiste un progetto di investimento di 14 miliardi di dollari per un hub tecnologico a 15 chilometri dalla capitale Nairobi, che dovrebbe dare lavoro a 17 mila persone. Si parla già di Silicon Savannah. Ma sono ormai più di trecento gli hub di questo genere presenti in 35 Paesi africani, con punte di eccellenza in Sudafrica (Silicon Cape) o in Nigeria (Silicon Lagoon).
Del resto, le dinamiche urbane in Africa non sono molto dissimili da quelle di altre metropoli del mondo, con un dinamismo soprattutto nel campo della telefonia mobile e delle nuove tecnologie che non è secondo a nessuno. Il continente ormai è coperto sin nelle zone più remote dalle reti di telefonia mobile e circa 200 milioni di africani sono in possesso di un cellulare. Che – nonostante i costi ancora piuttosto alti – è ormai diventato non solo un mezzo di comunicazione imprescindibile, ma anche un indispensabile strumento di lavoro, con ripercussioni su economia, sanità, istruzione e persino nei processi elettorali e democratici.
Anche per questo, l’Africa attrae, sempre di più, molte giovani donne altamente qualificate e non necessariamente impegnate nell’ambito della cooperazione – dove sono generalmente le più numerose. Irene Donati, ad esempio, ha 38 anni; dopo una laurea in Comunicazione e diversi anni di esperienza nel marketing è andata in Ghana come collaboratrice di un’agenzia pubblicitaria; oggi continua a vivere e lavorare ad Accra come esperta di digital marketing. Elisabetta Demartis, 30 anni, ha invece fondato Agritools in Senegal, un progetto di ricerca sull’utilizzo della tecnologia in campo agricolo, e YeesalAgriHub, un incubatore di start up a Dakar. Infine Chiara Barison, 37 anni, ha scelto pure lei il Senegal per la tesi di dottorato in Sociologia e oggi vi lavora come giornalista per la stazione televisiva del celebre cantante Youssou N’Dour.
«Non c’è dubbio che l’Africa stia cambiando molto rapidamente – commenta Martino Ghielmi -. Ma perché possa crescere da tutti i punti di vista penso che servano più partner che “aiuti”. Occorre però essere molto realisti. Lavorare in Africa è ancora estremamente complicato per una serie di limiti infrastrutturali, ma anche per la presenza di élite non sempre “illuminate” e di istituzioni deboli rispetto alla piaga della corruzione. D’altro canto, molti continuano a vedere il continente solo come un serbatoio di materie prime o come un potenziale enorme mercato. Dal di dentro, si osserva invece, da un lato, la crescente attenzione a valorizzare la propria cultura di origine, ma anche le grandi analogie tra sharing economy e i meccanismi di condivisione delle informazioni tradizionali. Per questo penso che vedremo presto un vero Rinascimento africano».
Ghielmi è ben consapevole che questo processo non sarà privo di turbolenze anche a livello politico. Gli interrogativi e le sfide sono molti e di vasta portata. «Ma sono convinto – conclude – che queste ineluttabili trasformazioni porteranno certamente a scenari migliori, innanzitutto per i giovani africani che oggi spesso cercano opportunità di vita migliore altrove, ma anche per tutta l’Africa, un continente che, negli ultimi quattro secoli segnati da schiavitù, colonialismo e neocolonialismo, ha subito un vero e proprio furto di futuro».