È lo stesso Fondo Monetario Internazionale a lanciare l’allarme sul drastico calo dei giovani nel Continente. Dettato dai nuovi stili di vita globalizzati molto più che dalla povertà
Il Fondo monetario internazionale – qualche settimana fa – scriveva che sulle prospettive della regione Asia-Pacifico, “nei decenni scorsi l’Asia ha beneficiato in modo significativo delle tendenze demografiche, come pure di forti politiche specifiche” sottolineando l’ampio “dividendo demografico” derivato da un’abbondanza di offerta sul mercato del lavoro. Tuttavia, ha avvertito l’istituzione finanziaria, “questo dividendo sta per avere fine in molte economie e nel contesto globale l’Asia sta diventando da maggiore contribuente alla popolazione in età produttiva a una realtà da cui andranno scalati nei prossimi anni centinaia di milioni di individui”.
A incentivare il regresso demografico del continente, salvo alcune eccezioni, sono dinamiche in cui giocano scelte individuali, necessità, pressione sociale e forti interessi delle classi dirigenti. Basti citare sul piano positivo emancipazione femminile, maggiore educazione, enormi progressi nelle strutture mediche e sanitarie. Su quello negativo emergono commercializzazione e diffusione della maternità surrogata, il crescente squilibrio di genere, il rapido invecchiamento della popolazione con l’eccezione di tutto rilievo dell’India.
La prima “negatività” – la diffusione della maternità surrogata – per l’Asia è un’estensione delle tradizionali pratiche di adozione all’interno delle famiglie e dei clan, che oggi si è trasformata nel centro di vasti interessi economici. Lo squilibrio di genere estende con modalità nuove la forte eredità confuciana in Cina, Taiwan, Coree, Giappone, mentre in India una tradizione di discriminazione sessuale è radicata anche nella tradizione socio-religiosa locale, connessa anche a politiche demografiche ufficiali. L’invecchiamento della popolazione risponde a dinamiche più complesse. Mentre altrove “crisi demografica” resta sinonimo di prole numerosa in rapporto alle risorse e al territorio, in Asia lo è di famiglie ormai troppo piccole, sovente mononucleari frutto di costi crescenti, adesione a nuovi stili di vita e allentamento dei tradizionali legami generazionali.
Complessivamente, l’Asia oggi affronta la sfida di un continente che va rapidamente invecchiando. Ed è una situazione che si colloca all’incrocio tra l’individuazione di più ampi o (per molti) nuovi strumenti di welfare e emergenza dal sottosviluppo oppure – per le economie più avanzate – da un prolungato periodo di recessione o stasi. Per questo o diventerà un elemento chiave per indirizzare le politiche economiche e sociali del futuro oppure, in caso di provvedimenti mancanti o insufficienti, rischierà di rendere precario o negativo il progresso di intere nazioni.
Corea del Sud, Giappone, Taiwan – in particolare – hanno già un tasso di fertilità di 1,4 figli per donna in età riproduttiva contro la media mondiale di 2,5 e ben sotto la media di 2,1 considerata soglia del ricambio generazionale. La Cina si sta avvicinando rapidamente a questo dato e buona parte del Sud-Est asiatico – prima tra tutti la Thailandia – vi si accoderà nei prossimi anni.
Basti un dato: se nel 1995 la Cina aveva 245 milioni di abitanti tra i 15 e 20 anni, le tendenze statistiche indicano che saranno 159 milioni nel 2025, incidendo pesantemente sulla popolazione produttiva necessaria alle sfide che il Paese ha di fronte.
Diversamente dall’Europa di inizio XX secolo, la crisi demografica asiatica non ha una motivazione primaria nella povertà, ma dipende dall’evoluzione sociale in un contesto di crescente benessere. Volontà di emancipazione femminile e soddisfacimento di nuove necessità non connesse con la sopravvivenza, scelta di maggiore autonomia individuale e ruoli diversi fanno da catalizzatori. Non a caso, l’età media del matrimonio in Giappone e Corea del Sud è salita da 24-25 anni nel 1970 ai 30 attuali, a cui si aggiunge che vi sono più uomini che donne nelle fascia d’età più fertile. Una condizione che potrebbe portare entro mezzo secolo a una media di 160 uomini per 100 donne in età matrimoniale. Anche peggio, nello scenario da incubo degli scapoli cinesi e indiani.