«Il tempo delle parole è finito» ha detto il presidente della Commissione dell’Unione africana Moussa Faki Mahamat a proposito della guerra in Sud Sudan. In margine al 29esimo summit dell’Unione Africana, che si è aperto oggi ad Addis Abeba, ha lanciato un appello perché tutta l’Africa si mobiliti per la pace.
Sud Sudan, Mali, Libia. Sono i tre dossier più scottanti che i Paesi africani affronteranno fra oggi e domani ad Addis Abeba, dove si è aperto oggi il 29mo vertice dei capi di stato e di governo dell’Unione africana.
A lanciare un forte appello ai Paesi africani per il Sud Sudan è stato il presidente della Commissione dell’Unione africana (a sinistra), il ciadiano Moussa Faki Mahamat. «Ho visto donne senza più lacrime in Sud Sudan», ha detto durante un incontro a margine del summit con le organizzazioni femminili della società civile, «ciò che ho visto nei loro occhi mi perseguita. Dobbiamo far tacere le armi!».
Di ritorno di recente da una missione del Paese più giovane del continente (il Sud Sudan è nato ufficialmente nel 2011 dalla separazione con il nord), Moussa Faki Mahamat ha lanciato una sfida ai Paesi e alle istituzioni africani: collaborare per pacificare il Paese entro il 2020. «Il tempo delle parole è finito», ha detto al Summit, «ora dobbiamo agire». E dal suo account twitter ha scritto: «Dobbiamo fare di più come africani, parlare con una sola voce per migliorare le nostre vite, quelle dei nostri figli e delle nostre comunità».
A fine maggio una delegazione di donne rifugiate in un campo profughi dell’Onu in Sud Sudan aveva fatto appello proprio al presidente della Commissione dell’Unione africana, raccogliendo testimonianze delle violenze subite dai civili in tutto il Paese.
«Il mio Paese, il Sud Sudan, è preso nella morsa di una guerra che non dà segno di finire, della quale le donne e le ragazze sono vittime innocenti», aveva scritto una rifugiata in una lettera indirizzata a Moussa Faki Mahamat rilanciata dalla testata The East African (qui a destra la vignetta pubblicata dal giornale). «Abusi sessuali e stupri sono diventati armi di guerra che vengono maneggiate senza pensarci due volte, e apparentemente senza rimorsi – continuava la donna nella lettera -. «Ho visto ferite, fisiche e psicologiche, che nessun essere umano dovrebbe sopportare, e sentito storie che porto dentro di me, come un fardello pesante. Sono stata seduta per ore nel campo improvvisato dove l’Onu cerca di proteggerci, consigliando i sopravvissuti e cercando di onorare le loro sofferenze ascoltando con tutto il cuore. Di recente, ho portato queste storie ad Addis Abeba, la capitale dell’Etiopia che ospita l’Unione africana. Insieme agli altri delegati, ho detto ai leader dell’Unione africana, e ai rappresentanti di Kenya, Uganda e Sudafrica cosa accade nel Paese da cui provengo. Ho detto loro come ho perso mio marito, fuggendo dalle violenze nel nostro villaggio. Come sono stata separata da mio figlio, che è fuggito a Khartoum. E come così tante altre persone come me hanno perso o sono state separate dai loro cari, dalla violenza che sta devastando il nostro giovane Paese. Ho chiesto loro di fare di più. Ho fatto appello al nuovo presidente della Commissione Africana, Moussa Faki Mahamat del Ciad, chiedendogli di marcare la sua leadership come differente, agendo in modo deciso per far finire questa terribile guerra. Sono grata della possibilità che ho avuto di portare la testimonianza mia e di molti altri, e spero che i politici ascoltino e agiscano».
In Sud Sudan è sempre più grave la crisi umanitaria. Sette milioni di persone rischiano di morire di fame ed epidemie ed oltre un milione e mezzo di sfollati fuggono da guerra e violenza.
Gli scontri sono cominciati nel 2013, quando il presidente Salva Kiir ha accusato il suo vice, Riek Machar, di aver ordito un colpo di stato alle sue spalle, facendolo cacciare dal Paese: il primo appartiene al gruppo etnico dei Dinka, il più numeroso nel Sudan del sud. Il secondo invece fa parte dei Nuer, secondo per numeri soltanto agli stessi Dinka.
Da qui è nata la guerra civile, intervallata dalla flebile pace dell’agosto 2015 e riesplosa nel luglio 2016, proprio in occasione delle celebrazioni dei primi cinque anni di indipendenza del Sud Sudan. Dal 2013 ad oggi sarebbero almeno 300mila morti e circa 2 milioni di sfollati. La guerra ha causato un enorme esodo di popolazione in fuga verso i Paesi vicini, soprattutto l’Uganda, e di sfollati nei campi di accoglienza dell’Onu presenti all’interno dei confini nazionali. Le lotte intestine tra Dinka e Nuer si sono allargate creando una situazione di violenza e instabilità in tutto il Paese, con attacchi effettuati contro gli stessi campi accoglienza allestiti dall’Onu.