Il clima è teso in Kenya a pochi giorni dalle elezioni generali dell’8 agosto. C’è il rischio di scontri fra fazioni rivali. E la carestia nel Paese rischia di gettare benzina sul fuoco. Parla padre Kizito Sesana da Nairobi.
«C’è molta tensione». Sono le prime parole da Nairobi di padre Renato Kizito Sesana, missionario comboniano che ha vissuto molti anni in Kenya ed è un attento osservatore della realtà sociale e politica del Paese.
Mancano pochi giorni alle elezioni generali dell’8 agosto, e il timore è che si ripresenti una situazione simile a quella del 2007, anno in cui si verificarono violenti scontri fra fazioni rivali che causarono la morte di almeno 1.300 persone.
«Qui si elegge tutto per i prossimi cinque anni», fa notare padre Kizito, «dalle amministrazioni locali più periferiche, fino al presidente, passando per la città di Nairobi di cui si elegge il sindaco e i suoi quartieri. A livello locale i kenyani sono molto più attenti alle persone che non ai partiti, ma a livello nazionale il voto purtroppo rischia di essere ancora su base etnica».
I due principali sfidanti alla presidenza del Kenya sono l’attuale presidente Uhuru Kenyatta che appartiene alla comunità Kikuyu (21% della popolazione in Kenya) e Raila Odinga che appartiene al gruppo Luo (13%). Ciascuno dei due è supportato, anche se non ufficialmente, da altre comunità come i Kalenjn (per il primo) e i Luhya (per il secondo).
«La sfida fra i due si muove purtroppo più lungo queste linee, che sull’appartenenza ai partiti», afferma padre Kizito. «I partiti e le coalizioni (Jubilee Coalition per l’attuale presidente e National Super Alliance – NASA per l’opposizione, ndr) sono solo un veicolo per arrivare al potere. Ma io non riuscirei – e credo che nessun kenyano riuscirebbe – a trovare differenze ideologiche rilevanti fra di essi. I programmi si somigliano. Tanto che durante la campagna elettorale i partiti si sono reciprocamente accusati di plagio».
Gli anni passano ma i nomi degli sfidanti restano gli stessi. Uhuru Kenyatta è figlio di Jomo Kenyatta, il padre della indipendenza del Kenya, che è stato presidente dal 1964 fino alla sua morte, avvenuta nel 1978. Raila Odinga è figlio di Jaramogi Oginga Odinga, ex vice premier del Kenya, che è stato lo sfidante di Mwai Kibaki durante le elezioni presidenziali del 2007. «L’elezione presidenziale è di fatto una competizione fra due famiglie estremamente importanti: entrambe controllano il Paese e hanno i loro feudi economici. In Kenya le famiglie che posseggono fette importanti di potere politico ed economico sono cinque o sei».
I sondaggi più attendibili danno Kenyatta al 47% e Odinga al 43-44% . C’è quindi un margine molto stretto. E per essere eletto il nuovo presidente avrà bisogno del 50% più un voto. Gli indecisi saranno importanti, ma se non si arriverà alla maggioranza assoluta si andrà al ballottaggio, che verrà fissato con molta probabilità il 13 settembre. Il rischio è quello di un mese di tensioni politiche e sociali che potrebbero esplodere in violenze.
Da anni, e in particolare dopo le violenze del 2007, una parte della società civile ha svolto un grande lavoro per il superamento delle divisioni etniche, a livello sociale. Anche la Chiesa cattolica e i leader religiosi hanno promosso iniziative per unire la popolazione. «A livello nazionale però questo lavoro che è stato fatto non incide sulle logiche con cui si muove la politica e temo che nel momento della rabbia gli appelli alla pace conteranno ben poco», afferma padre Kizito. «La sostanza è che siamo in una società dove la politica è tribale, etnica. Come ha scritto in questi giorni un editorialista del Daily Nation, il principale giornale del Kenya: “Voterai per una persona della tua tribù anche se sai che è incompetente, inefficace, pigro o un ladro seriale”. Quello che spero è che questo lavoro di base che è stato fatto servirà per lo meno a evitare le violenze».
Un fattore preoccupante è anche la carestia che ha colpito in modo drammatico l’Africa dell’Est e anche il Kenya.
«Poche settimane fa il prezzo della polenta è andato alle stelle», conferma padre Kizito. «E il governo è subito intervenuto a calmierare importando farina dall’estero per abbassare i prezzi. Certo la rabbia sociale potrebbe costituire un mix esplosivo con le tensioni elettorali. C’è da notare però che di fronte alle impennate dei prezzi anche i Kikuju hanno protestato insieme agli altri contro il governo. La rabbia sociale ha una dimensione etnica ma anche una forza sua. Forse lentamente c’è una comprensione che esistono delle classi sociali e non solo delle tribù». Di certo però resta una situazione pericolosa.
Dalla parte della pace c’è qualche fattore in più, però, rispetto al 2007. «L’aspetto positivo è che c’è una maggiore consapevolezza della gente. Molti giovani si sono accorti di essere stati ingannati, di essersi lasciati coinvolgere in una guerra fra poveri mentre quelli che l’avevano scatenata restavano tranquilli nelle loro case da ricchi. C’è una maggiore consapevolezza che la violenza non serve».
Rispetto al 2007 c’è anche più prudenza a livello internazionale. «Nel 2007 le due grandi tribù che si sono scontrate in Kenya sono stati gli americani e i cinesi» dice scherzando, ma non troppo, padre Kizito. «La penetrazione cinese in quel periodo era appena cominciata e dava un fastidio enorme. Alcuni Paesi hanno sostenuto abbastanza esplicitamente Odinga perché prometteva di rinforzare legami con l’Occidente. Oggi la presenza cinese in Kenya è assodata e incontrovertibile. E anche da parte dei Paesi occidentali c’è molta più prudenza».