Il martoriato Paese è di nuovo messo a ferro e fuoco da gruppi armati che, a piede libero, saccheggiano e uccidono. La testimonianza di padre Tiziano Pozzi, missionario betharramita e medico responsabile del dispensario di Niem
Non c’è pace per la Repubblica Centrafrica dove da mesi ormai sono ripresi gli scontri tra i gruppi armati a piede libero nel Paese. Dal 2013 la guerra civile generatasi dal rovesciamento del presidente Francois Bozizé da parte dei Seleka – mercenari provenienti da Ciad e Sudan – non dà tregua al Paese nel cuore del continente africano. Dopo appena una breve tregua, infatti, i due fronti composti dai Seleka che sostengono di difendere gli interessi dei musulmani e quelli degli anti-balaka, gruppi spontanei di autodifesa a maggioranza cristiana, hanno continuato a fronteggiarsi. La religione c’entra però ben poco: i gruppi armati scorrazzano nel Paese con lo scopo di controllare le zone più ricche di risorse come oro e diamanti, accontentandosi spesso di fare razzia al proprio passaggio.
Nonostante l’elezione del professore Faustin-Archange Toudera alla carica di Presidente avesse dato buone speranze, poco è cambiato e con oltre 14 gruppi armati sparsi sul territorio la situazione è quanto mai precaria. Le Nazioni Unite fanno sapere che sono 25mila le persone che si sono rifugiate nel nord della Repubblica democratica del Congo mentre il cardinale Nzapalainga da Bangui ha spiegato che «tre quarti del Paese è nelle mani dei ribelli che saccheggiano, stuprano, distruggono, incendiano, uccidono».
Negli ultimi mesi ci sono stati diversi morti anche tra gli operatori umanitari: a Gambo a 75 chilometri dalla città di Bangassou da tre anni in mano ai Seleka, hanno perso la vita anche sei volontari della Croce rossa, uccisi come vendetta per un’incursione degli anti-balaka nel loro territorio; mentre lo scorso 2 settembre un sacerdote è stato ucciso a Zemio da un gruppo di uomini armati bororo in circostanze poco chiare.
A seguito dell’escalation della violenza, una alla volta le organizzazioni internazionali stanno abbandonando il campo. A rimanere sono i missionari, tra cui alcuni padri betharramiti italiani che in questi giorni si trovano proprio in una zona calda del Paese. Nel villaggio di Niem, a 200 chilometri da Bouar nell’ovest del Centrafrica, dove opera la congregazione con decine di scuole e un dispensario, dal 2 maggio scorso si è installato un gruppo di ribelli noto col nome di 3R. Il gruppo (il cui nome sta per Retour, Réclamation et Réhabilitation) è composto da fulani, etnia di pastori di fede islamica che ha stabilito un presidio a 35 chilometri dal villaggio. Dopo la loro irruzione di maggio compiuta col pretesto di proteggere i pastori musulmani dagli anti-balaka, accusati di aver rubato loro il bestiame, si erano contati una ventina di morti e molti sfollati. In estate, con il 70 per cento degli abitanti ritornati al villaggio, la situazione sembrava tornata alla normalità… fino a mercoledì scorso.
In un lungo messaggio fatto pervenire agli amici italiani, infatti, padre Tiziano Pozzi, missionario betharramita e medico responsabile del dispensario di Niem spiega: «Il 30 agosto verso le 5 e 35 a Niem hanno ricominciato a sparare: i ribelli del gruppo 3R sono ritornati per scacciare gli anti-balaka che da pochi giorni avevano ripreso il controllo di Niem, dopo i fatti del 2 maggio scorso». I miliziani sono rimasti nel villaggio circa 24 ore, abbastanza per darsi al saccheggio, sfondando le porte delle case e saccheggiando in ogni angolo. «Al mercato poi hanno svaligiato le poche boutique che avevano appena riaperto e hanno ucciso due giovani, colpevoli di essere ritornati al villaggio per recuperare le loro cose. Ho fatto un giro: una desolazione assoluta. Ho visto tutte le boutique sventrate, la mercanzia sparsa qua e là e lo stesso desolante spettacolo per i quartieri».
«Sabato scorso – continua padre Tiziano – è venuta la MINUSCA [la missione Onu in Repubblica Centrafricana, ndr] ma solo a fare un giro e hanno avuto un atteggiamento incomprensibile: sono andati direttamente a Yelewa [dove risiedono i capi del gruppo armato 3R, ndr] e a Niem non si sono neppure fermati. La missione è sempre piena di rifugiati e nessuno si azzarda a tornare a casa, anche perché nel frattempo sono ritornati gli anti-balaka, che più che altro sono dei ladri… anche se ormai non c’è molto da rubare. Discutendo con loro si vede subito che sono sotto l’influsso di qualche droga (in genere un miscuglio di alcool, di erbe e di medicine varie) ma quello che più mi ha impressionato sono i loro fucili di fabbricazione locale, tenuti insieme con delle corde. L’altra notte ne è arrivato uno feritosi a un ginocchio, dopo una bagarre tra di loro per spartirsi un misero bottino. Aveva tre proiettili nel ginocchio. Quando li abbiamo tolti abbiamo visto che in realtà erano fabbricati con dei pezzi di lamiera per i tetti: non ci sono parole».
«Forse nei prossimi giorni arriverà la MINUSCA in pianta stabile insieme a qualche aiuto umanitario: vedremo. Intanto se non ci fossimo noi – ammette padre Tiziano – Niem si sarebbe già completamente svuotato: la gente ha paura».
Eppure in tutta questa precarietà la vita ha comunque l’ultima parola: «Gli strilli dei neonati in questi giorni difficili continuano a farci compagnia. L’altra sera poi ho chiesto al nostro vecchio catechista se i ribelli gli avessero rubato qualcosa. Mi ha risposto: “In casa mia non c’è niente da rubare, non abbiamo neppure la serratura sulla porta. Ero solo preoccupato che mi avessero preso la lista dei bambini del catechismo: meno male che l’ho ritrovata”».