Lo scorso ottobre è stato presentato il progetto di un Centro per la guarigione della memoria voluto da missionari e religiosi del Sud Sudan
Dopo oltre quarant’anni di guerra per liberarsi dal giogo e dallo sfruttamento del Nord, ora il Sud Sudan si ritrova funestato da un conflitto fratricida, che si trascina ormai da un anno e che sta devastando un Paese che non è mai diventato una vera nazione. Un Paese fatto di tribù da sempre nemiche, dove il concetto di cittadinanza non significa nulla o quasi. Paradossalmente, il Sud Sudan era più unito quando aveva un nemico comune da combattere: il governo liberticida di Khartoum. Ora l’indipendenza ha fatto emergere in tutta la sua drammaticità le divisioni interne, specialmente fra popolazioni tradizionalmente nomadi e bellicose.
Per questo, oltre ai necessari e difficili accordi di pace tra le fazioni attualmente in conflitto – quella del presidente Salva Kiir che rappresenta i dinka e quella dell’ex vice Riek Machar, leader dei nuer – è necessario promuovere la riconciliazione dal basso. Ne è da sempre convinta la Chiesa sud sudanese che, già alla vigilia dell’indipendenza del luglio 2011, aveva lanciato una campagna che mirava a costruire un senso più profondo di cittadinanza: «Cambiare i cuori per cambiare il mondo. E per cambiare il Sud Sudan». Ovvero creare un senso di appartenenza al nuovo Paese e far sì che tutti i suoi abitanti si sentissero davvero parte di una nazione e fossero trattati con dignità, giustizia e uguaglianza. Purtroppo, la storia recente del Sud Sudan dice che la libertà non è una condizione sufficiente a garantire la convivenza pacifica, migliori condizioni di vita e diritti per tutti. E per questo, la Chiesa è di nuovo in prima fila, e con essa le congregazioni missionarie e religiose presenti nel Paese. Per provare a costruire la pace dalla gente.
«L’indipendenza non ha significato una vita migliore per la maggior parte dei cittadini di questo nuovo Paese – commenta padre Daniele Moschetti, superiore provinciale dei missionari comboniani a Juba -. Le divisioni etniche e i giochi di potere hanno minato sin dall’inizio la possibilità di costruire una convivenza pacifica tra le diverse popolazioni, che compongono il variegato mosaico etnico di questo Paese». Molte di loro, infatti, sia per le grandi distanze, sia a causa della guerra, hanno sempre vissuto separatamente, con un forte senso identitario tribale e talvolta antiche rivalità. E così il Sud Sudan di oggi continua a essere un Paese senza un popolo, segnato da profonde linee di frattura. «Per questo – continua padre Moschetti – noi che siamo sempre stati al fianco di questa gente e ne abbiamo condiviso le legittime aspirazioni di libertà e indipendenza, dobbiamo continuare a lavorare per mettere basi solide per una pace vera e duratura».
Ecco perché padre Daniele, che è anche responsabile della Religious Association of Superiors of South Sudan (Rsass) – che raduna ben 46 congregazioni – sta cercando di realizzare un grande sogno con il sostegno dei vescovi del Paese: quello di creare a Juba un Centro di formazione umana e spirituale, di guarigione della memoria e di peace building. «Un lavoro importante dice il missionario – che dobbiamo fare tutti insieme per uscire dai tanti blocchi e traumi che la gente vive a causa di oltre quarant’anni di guerra con il Nord e del conflitto interno di quest’ultimo anno».Ancora oggi, la situazione è tutt’altro che stabilizzata. Dopo gli scontri e la carneficina nella capitale Juba a metà dicembre 2013, il conflitto si è esteso a tre Stati – Unity, Alto Nilo e Jonglei – doppiamente strategici ed “esplosivi”: perché ricchi di petrolio e perché divisi etnicamente tra dinka e nuer. Stragi e atrocità sono state compiute specialmente nelle città di Bor, Malakal e Bentiu con migliaia di morti, soprattutto tra i civili.
Ma anche altrove nel Paese, dove il conflitto non è così aperto e drammatico, si moltiplicano le situazioni di crisi e violenze, spesso legate al possesso e all’uso della terra, dell’acqua e delle mandrie.Attualmente oltre un milione e mezzo di sud sudanesi sono stati costretti a lasciare le proprie abitazioni e hanno perso tutto, spostandosi in altre regioni o nei Paesi limitrofi alla ricerca di cibo e sicurezza. Sono oltre 400 mila i profughi e quasi 100 mila gli sfollati interni, che vivono in parte nei campi delle Nazioni Unite – a loro volta attaccati – per paura di ritorsioni e violenze. Tutto questo non ha fatto altro che aggravare la situazione umanitaria. Secondo la Fao, a causa del conflitto e del vasto numero di sfollati, oltre 3,5 milioni di persone soffrono attualmente di livelli di insicurezza alimentare d’emergenza, e non sono in grado di soddisfare le esigenze di sopravvivenza di base, anche con meccanismi estremi come la vendita di bestiame e di altri beni produttivi. E così, in un Paese che coltiva solo l’un per cento della propria terra, la sicurezza alimentare rischia di deteriorarsi ulteriormente.
«Oggi la pace sembra ancora un miraggio – commenta padre Daniele -. I leader hanno pesanti responsabilità e devono fare la loro parte per mettere fine al conflitto. Ma noi siamo convinti che la pace, la riconciliazione e la convivenza debbano essere costruite anche dal basso. E non si può aspettare ulteriormente. Bisogna cominciare sin da ora a garantire una formazione spirituale e umana a tutti i sud sudanesi, così come al personale della Chiesa».Per questo, lo scorso 11 ottobre, alla presenza dell’arcivescovo di Juba, monsignor Paolino Lukudu Loro, è stato presentato il Trauma Healing and Peace Building Center, un Centro che mira a fare formazione umana e spirituale per la gente e il personale della Chiesa e arricchire il dialogo interreligioso ed ecumenico. Il Centro verrà realizzato a Rejaf, nei pressi della prima missione dei comboniani in Sud Sudan, che risale al 1919. Un segno simbolico di continuità e di fedeltà quasi centenarie.Il Centro – unico nel suo genere in tutto il Paese – sarà gestito e curato da una comunità religiosa appartenente alla Rsass che promuoverà ritiri spirituali, seminari e corsi di formazione. «Sarà una grande benedizione per molte persone in questo nuovo Paese – commenta padre Daniele – e sarà aperto a tutte le organizzazioni, anche ecumeniche, che desiderano condividerne i valori, la visione e gli obiettivi».
«C’è un grande bisogno di guarire i traumi provocati non solo dalla guerra – continua il missionario – ma anche dalle violenze comunitarie. E c’è un grande bisogno di imparare a risolvere tutti i generi di conflitti. Ma per questo ci vuole formazione e pensiamo che questo luogo possa aiutare le persone, anche di tribù diverse, a incontrarsi, conoscersi, superare i reciproci pregiudizi, condividere non solo sofferenze e paure, ma anche ricchezze culturali e aspirazioni per il futuro».È una scelta coraggiosa quella di lavorare per costruire il dialogo in un Paese dove anche tutto il resto è da costruire: infrastrutture, sistema educativo e sanitario, economia… Eppure, anche gli aspetti più materiali dello sviluppo non possono prescindere da una dimensione più umana e comunitaria di progettare e costruire insieme il Sud Sudan di domani. Come dimostrano questi primi anni di faticosa indipendenza.«Dalla firma degli accordi di pace, nel 2005, e poi in tutto il percorso che ha portato prima al referendum e poi all’indipendenza insiste padre Daniele molte organizzazioni internazionali hanno cercato di rispondere ai bisogni materiali della gente e alle molte emergenze. E questo è comprensibile per un Paese tra i più poveri al mondo dove manca davvero tutto. Tuttavia, noi pensiamo che maggiore attenzione debba essere dedicata alla formazione umana e spirituale, senza la quale è impossibile perseguire uno sviluppo sostenibile, equo e duraturo».
Padre daniele, come molti altri che conoscono bene questo Paese e ne hanno condiviso le sorti spesso drammatiche, non si fa illusioni. Sa che sarà un lavoro lungo e difficile, di generazioni. Ma non si lascia scoraggiare: «Anche se il futuro ci appare incerto e per molti versi imprevedibile – dice – siamo assolutamente convinti che si debba continuare a lavorare con la gente per costruire una società più umana, che metta al centro il rispetto, la riconciliazione, la dignità della persona, la comprensione e l’accettazione di valori fondamentali per una vita condivisa da un popolo in cammino verso l’unità. Anche la dimensione della fede ha un ruolo importante da giocare in questo campo soprattutto in Africa e può essere di grande aiuto per la guarigione della memoria e la realizzazione di una società più umana e solidale»«È una missione grande e unica – conclude -. Ma è molto importante se vogliamo davvero toccare i cuori e le vite della gente per costruire un futuro per questa nuova nazione tra le più povere al mondo». MM