Quella di Marawi è stata la prima battaglia di un califfato che in Asia cerca di radicarsi e di rilanciarsi dopo le disfatte mediorientali.
La battaglia di Marawi è finita, ufficialmente il 23 ottobre, dopo la scoperta nell’ultimo edificio rimasto in mano ai ribelli, di una quarantina di corpi senza vita. Guerriglieri, ma anche loro familiari, forse pure combattenti donne. La fine dell’assedio è avvenuta allo scadere del quinto mese di combattimenti e in coincidenza forse non casuale con il vertice dei ministri della Difesa dell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico, dieci membri tra cui le Filippine) aperto il giorno successivo a illustri partner per la sicurezza regionale come Stati Uniti, Cina, Giappone, Russia, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda).
La città, centrale alla tradizione islamica di Mindanao, con i suoi minareti e la sua identità etnica e culturale orgoglio di una popolazione al 98 per cento musulmana, è stata testimone di eventi che presentano tante zone d’ombra e altro mettono invece in evidenza.
Iniziata quasi in sordina nel pomeriggio del 23 maggio, con l’attacco coordinato di poche decine di militanti costretti, si disse allora, all’iniziativa da un’azione della polizia per catturare Isnilon Hapilon (transfugo del gruppo Abu Sayyaf e referente primo dell’autoproclamato Stato islamico nell’Asia sudorientale), e di alcuni dei fratelli Maute, il cui gruppo omonimo ha nell’area di Marawi la presenza più consistente. Se fallimento vi fu, quali ne sono state le ragioni e quanto la successiva battaglia trasformatasi presto in assedio ha fatto il gioco della guerriglia come pure dei comandi militari e, infine, dell’attuale presidente Rodrigo Duterte, che del pugno di ferro ha fatto uno slogan?
Sono bastati pochi giorni di azione militare per chiarire che l’attacco a Marawi era stato predisposto, rifornendo di armi, munizioni, esplosivi una serie di rifugi collegati da tunnel integrati dalla rete fognaria. Per evidenziare anche l’inadeguatezza di addestramento e mezzi delle forze di sicurezza fatte convergere sul centro abitato, almeno nella fase iniziale. Militari per lo più addestrati a combattere nella foresta, sempre al limite quanto a mezzi, preparazione e motivazione si sono trovati a combattere in un ambiente urbano dove pochi individui determinati e adeguatamente armati possono tenere facilmente sotto controllo aree anche estese. L’arrivo successivo di mezzi aerei, consiglieri stranieri e la copertura radar dell’alleato americano hanno reso più efficace la risposta ma non hanno accelerato i tempi. Intanto la città si è svuotata e con essa l’area circostante, mandando 400mila sfollati verso altre municipalità, in parte in campi profughi, sovente in condizioni assai difficili. Alla fine, i morti sono stati oltre un migliaio, per fonti ufficiali in maggioranza guerriglieri, ma sofferenze e devastazione segneranno per lungo tempo la popolazione.
Sulla distanza, e mentre i governo filippino ha avviato piani di rientro accompagnati da una educazione all’individuazione di esplosivi e a una vita di pura sussistenza in una città più simile oggi a Mosul e Raqqa che non al vibrante centro di un tempo, appare chiaro che quella che sembrava essere un’azione quasi casuale, di pochi militanti ideologicamente e militarmente inquadrati, è diventata qualcosa di più e di assai più preoccupante, anche in un contesto di conflitto che dura da oltre quarant’anni e ha fatto 120mila morti. Qualcosa di nuovo, per diversi osservatori la prima battaglia in Asia di un califfato che qui cerca di radicarsi e di rilanciarsi dopo le disfatte mediorientali.
Proprio le Filippine, rispetto a Indonesia e Malaysia, corrono il rischio maggiore di un’offensiva terroristica, ancor più perché alimentato da rancore verso un potere politico e un apparato militare, con i loro supporti stranieri, identificati come cristiani, storicamente avversari. Nelle regioni meridionali dove si concentra il sei per cento della popolazione musulmana, il governo di Manila ha avuto come interlocutore negli ultimi anni il Fronte islamico di liberazione Moro (Milf), oggi la maggiore formazione armata dell’indipendentismo islamista. Proprio dal Milf si è scisso nel 2008 il Fronte dei combattenti islamici per il Bangsamoro, che ha dichiarato la propria fedeltà a Daesh e che si propone ora come principale antagonista delle forze armate filippine. Fuoriuscito è pure Abu Sayyaf, passato dall’alleanza con Al Qaeda a quella con l’Isis. Assediato sulle isole di Basilan e Jolo, è per questo potenzialmente più letale oltre le abituali roccaforti. Le difficoltà del percorso di pace e le offensive delle forze armate filippine sotto la presidenza del “duro” Rodolfo Duterte, i troppi problemi insoluti di Mindanao, forniscono motivazioni e pretesti a questi e a altri gruppi minori in grado di fornire basi per infiltrazioni di estremisti dalle aree di conflitto mediorientali ma anche, come a Marawi, coordinare guerriglieri locali e combattenti stranieri con efficacia letale. Le ingenti perdite, la legge marziale imposta almeno fino a fine anno, l’uccisione di Isnilon Hapilon e dei fratelli Maute potrebbe portare a una crisi momentanea del movimento ma già, in particolare dalla Malaysia, si segnala una nuova leadership pronta a prendere la guida locale dell’Isis.