«Al di sopra di tutto per padre Gheddo c’erano “le missioni” e i missionari, le vocazioni missionarie. Le missioni, rispetto alla missione, sono realtà incarnate». Il ricordo dell’attuale direttore di “Mondo e Missione”, che ha fatto le sue prime esperienze da giornalista proprio con padre Gheddo, trent’anni fa
«Questo è un predicozzo. Non è un editoriale!». Da giovane redattore ricordo queste precise parole del direttore padre Piero Gheddo nel lontano 1987. E siccome a quel tempo si usava ancora la macchina da scrivere, il foglio dattiloscritto finì direttamene nel cestino sotto la sua scrivania. Da allora, qualcosa ho imparato e il giornalismo missionario, pur non diventando mai per me un’attività a tempo pieno, è rimasto comunque un impegno e una passione grande. Ora la direzione di “Mondo e Missione”, che padre Gheddo ha rinnovato nel 1969 e guidato fino al 1994, fa parte del “pacchetto” di una mezza dozzina di incarichi che uno si ritrova sulle spalle quando gli viene affidata la guida del Centro Missionario Pime di Milano. Attualmente, appunto, il sottoscritto.
Piero Gheddo è stato un uomo e un prete “fortunato”. Nato con un talento per il giornalismo, ha incrociato un momento favorevole per l’Italia, la Chiesa e le missioni. Venuto a Milano da studente a metà degli anni Quaranta, non ha mai abbandonato la città della laboriosità e della fiducia. Ha cominciato a scrivere di “cose” missionarie già da seminarista. Si è temprato da giovane prete nella redazione Pime di Milano quando “Mondo e Missione” era ancora “Le Missioni Cattoliche” (1872-1969). Poi, il lavoro alla Sala Stampa Vaticana durante il Concilio Vaticano II. Quindi, le collaborazioni con numerosi giornali. E poi i viaggi nei Paesi e nelle missioni di tutto il mondo. Reporter di guerra in Indocina negli anni Settanta.
Era il tempo in cui l’Italia cresceva, usciva dalla povertà, la gente voleva leggere, capire, c’era dibattito. La Chiesa, nel suo complesso, era vivace. L’attività missionaria era ormai molto diversa da quella dei decenni che avevano preceduto il Concilio Vaticano II, ma l’entusiasmo e i numeri non mancavano. Non solo gli Istituti missionari continuavano a inviare giovani in missione, ma nascevano nuove comunità e soprattutto cresceva il movimento laicale missionario e il volontariato internazionale; nuove forme, rispetto a quelle strettamente clericali, molto efficaci in passato, ma considerate ormai un po’ “stantie”. Quello che ancora veniva definito “Terzo Mondo” usciva dall’epoca coloniale. In America il movimento per i diritti civili sfidava il pregiudizio bianco. I giovani europei, anche cattolici, scatenavano il controverso Sessantotto. Le ideologie politiche si confrontavano sui due versanti di una cortina di ferro che attraversava non solo l’Europa, ma la testa e il cuore delle generazioni di allora.
In quel contesto culturale, Gheddo scriveva, dibatteva, polemizzava, organizzava campagne. Per molti anni aveva chiesto di andare in missione, ma desiderava anche continuare a fare quel lavoro che considerava tanto importante. Coglievi la grande stima per il confratello missionario che spendeva la vita con la gente in un remoto villaggio e che lui molte volte era andato a trovare. Ma non si sentiva da meno, non aveva alcun complesso di inferiorità. Era entrato giovanissimo nella logica e nella dimensione del “villaggio globale”. Era profondamente un uomo delle comunicazioni sociali. Nell’era di Internet e dei social la sua capacità di lavoro e di sintesi avrebbe inondato la rete. Di esempi e di pensieri di bene. E in parte è stato così, in questi ultimi anni.
Da giovane redattore, pur nel mio ruolo assolutamente marginale, mi arrabbiavo quando Gheddo si scontrava con i direttori di altre riviste missionarie. Ero più moderato e possibilista riguardo le opzioni ecclesiali e politiche. Gheddo aveva la cultura del “collateralismo” politico. Di indole guelfa, vedeva più o meno con la stessa lente dello stesso colore la situazione del suo Paese nelle campagne vercellesi, dell’Italia e del mondo; tre dimensioni per lui concentriche, che non ha mai abbandonato e nelle quali è vissuto e ha pensato. Un certa irruenza, la scarsa propensione al lavoro di squadra, un filo di narcisismo in Piero Gheddo li ritrovavi. Non era un angelo. Affettuosamente, anzi, si faceva chiamare Pierino.
Non era però la politica internazionale il suo tutto. Tanto meno lo era il giornalismo. Neppure il Pime, che amava tanto. Né il concetto moderno e pigliatutto di “missione”. Al di sopra di tutto per Gheddo c’erano “le missioni” e i missionari, le vocazioni missionarie. Le missioni, rispetto alla missione, sono realtà incarnate. Sono territori, in genere poveri. Sono persone, spesso pure povere. Sono tribali indiani, caboclo amazzonici, Chiese cinesi controverse, tupuri e guiziga del nord del Camerun, seminari e preti indigeni, cappelle, scuole, centri di cura nelle favelas o nella savana, in cui non solo si annuncia il Vangelo, ma si manifesta senza confine l’«ama il tuo prossimo come te stesso». Con i missionari (e con tanti altri), oltre le visite sul posto e la sua porta sempre aperta a Milano e a Roma, Gheddo ha intrattenuto una sterminata corrispondenza per quasi tre quarti di secolo. Non poteva concepire la missione senza i missionari, quelli che partono, che stanno via, che hanno la testa e il cuore sul posto; che poi, anche se vengono richiamati in Italia per qualche anno, si impegnano a fondo anche qui per l’animazione missionaria, perché la causa è la stessa. Come faceva lui, da decenni, al primo piano del Centro Pime con la comunicazione. E proprio sotto di lui padre Mauro Mezzadonna, che gli sopravvive, come la segretaria di mezzo secolo, suor Franca Nava, 96 anni, più o meno la stessa età e gli stessi anni di servizio a Milano; a piano terra, però, padre Mauro, perché più facile accogliere i benefattori e aiutare i missionari sul campo: ostelli, studenti, borse di studio, catechisti, cappelle, seminari, viaggi, medicine…
Non si può dire che, in un primo tempo, Gheddo abbia vissuto bene il distacco dai suoi impegni a Milano nel 1994; né in totale spirito di “obbedienza”. Lasciare la “ribalta” dei media e della notorietà non è cosa spontanea. Accorgersi del passare degli anni e del premere delle nuove generazioni nemmeno. Ma Gheddo non si è mai sentito un “silurato”. Non lo era. Per altri vent’anni ha diretto l’Ufficio storico del Pime a Roma, ha scritto decine di libri, promosso cause di beatificazione e canonizzazione, tenuto trasmissioni radiofoniche e televisive, conferenze e relazioni, fatto viaggi, incontrato missionari e personalità. Lascia persino un libro incompiuto sulla storia e l’attualità del Pime, a cui ha lavorato sino a qualche giorno fa.
Una testimonianza di dedizione missionaria letteralmente fino all’ultimo respiro.