Da Sotto il Monte la testimonianza di mons. Luigi Bettazzi, padre conciliare e vescovo emerito di Ivrea che fu presidente di Pax Christi quando nacque la Marcia della pace: «Abbiamo seminato idee che spesso altri hanno ripreso. Il commercio delle armi? Frutto dell’eresia del guadagno; l’unica strada è la riconversione dell’industria bellica»
Mons Luigi Bettazzi, 94 anni, vescovo emerito di Ivrea, continua a parlare, a scrivere, a marciare per la pace, contro la povertà, per la riduzione degli armamenti e l’eliminazione della armi nucleari. Un impegno che supera il mezzo secolo e divenuto stabile con la nomina a terzo presidente di Pax Christi nel 1968. Lo incontriamo a Sotto il Monte (BG) nella notte di Capodanno cinquant’anni dopo la prima marcia organizzata dal movimento nello stesso luogo cinque anni dopo la morte di Giovanni XXIII.
Mons. Bettazzi cosa ricorda di quei giorni?
Nel corso del 1968 mi contattarono da Roma per chiedermi di accettare la guida di un gruppo di giovani impegnati per la pace e che volevano un vescovo come presidente. Dissero di aver pensato a me come il più adatto. Poi ho saputo che avevano già chiesto ad altri cinque vescovi, ma avevano tutti rifiutato. Mons. Mario Castellano era stato il secondo presidente di Pax Christi, ma si era dimesso perché troppo impegnato con la sua diocesi di Siena. Io ho accettato. I membri del movimento erano seimila. Ma erano quasi tutte adesioni pro forma. Dopo una verifica sono rimasti solo trecento giovani. Una delle prime cose che questi ragazzi hanno detto è stata che volevano contestare il consumismo di Capodanno. Da qui l’idea di una marcia di preghiera e digiuno per la pace dalla casa natale di Papa Giovanni a Sotto il Monte fino a Bergamo. Più avanti la stessa idea della marcia è stata adotta dal Sermig a Torino, dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma e da altri contribuendo molto a formare l’opinione pubblica.
E come ha vissuto ora di nuovo queste giornate di riflessione e questa marcia per la pace e i migranti a Sotto il Monte?
Con una consapevolezza maggiore di ciò che Papa Giovanni aveva voluto con il Concilio Vaticano II, con il suo pontificato e in particolare con l’enciclica Pacem in Terris con cui ha aperto la Chiesa al mondo, a tutti gli uomini di buona volontà. Non un Concilio di carattere dogmatico, dove si definiscono prima le verità di fede e chi non le riconosce resta fuori, ma un Concilio pastorale, nel senso che si chiamano tutti a camminare insieme e lavorare per la pace e il bene dell’umanità. Tutto questo poi è cresciuto sotto i vari pontefici fino a Francesco che mette i poveri al centro, “quello che hai fatto ad uno di questi piccoli l’hai fatto al Signore”. Ho vissuto con gratitudine questi giorni.
Di che cosa parlava da giovane vescovo durante il Concilio con Papa Giovanni?
In realtà avevo avuto modo di incontrare Angelo Roncalli quando era ancora nunzio in Bulgaria e Turchia. Una volta mi chiese quali fossero i miei hobby. Avevo appena cominciato ad insegnare. Gli dissi che il primo era la passione per i libri antichi. Il secondo era lo studio delle visite pastorali di San Carlo Borromeo alla diocesi di Bergamo. San Carlo portava il Concilio di Trento, Roncalli già allora mi diceva che un Concilio sarebbe stato una buona idea per rinnovare la Chiesa. Aveva trovato tante cose buone tra gli ortodossi vivendoci insieme per dieci anni; poi a Istanbul i musulmani l’avevano aiutato a portare gli ebrei fuori dalla Germania; in seguito l’esperienza della laicità francese da nunzio a Parigi dopo la guerra; quindi le sue esperienze pastorali fino ad essere patriarca di Venezia. Aveva capito che non era la Chiesa “buona” e il mondo “cattivo”. La Chiesa doveva essere a servizio del mondo, non il suo giudice.
Il tema della marcia e del convegno preparatorio quest’anno sono i migranti. Gli italiani amano gli stranieri?
Ogni anno per la marcia Pax Christi adotta il tema indicato dal Papa per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio. Gli italiani sono abbastanza sensibili ai problemi dei poveri. Alcuni però fanno più difficoltà, sono più chiusi. E in questo momento in cui l’Europa si chiude sempre più, queste persone riescono ad avere più voce nel mostrare le difficoltà che il fenomeno migratorio procura e i timori che produce. I cristiani non solo devono impegnarsi nell’accoglienza, ma anche nel far maturare tra la gente la consapevolezza dei valori. Lo ius soli, ad esempio, non c’entra con chi arriva, ma è per i ragazzi che sono nati qui e i cui genitori sono qui da tempo, lavorano e sono integrati. Difficile però affrontare questo tema a fine legislatura. Ma sono fiducioso che verrà risolto subito dopo il voto.
Nemmeno il commercio della armi diminuisce e trova una soluzione.
Infatti le produciamo ora in Sardegna per chi uccide i civili in Yemen. È la grande eresia del guadagno e del denaro denunciata da Gesù e da San Paolo. L’unica via percorribile è quella della riconversione industriale per salvare i posti di lavoro e gli stipendi che sostengono le famiglie. Una delle prime marce di Pax Christi mise a fuoco la produzione di carri armati in Val d’Aosta. Gli operai ci appoggiarono e la fabbrica cominciò piuttosto a produrre camion. È questa la via per risolvere un grave problema di coscienza.
Quale segno ha lasciato Pax Christi in cinquant’anni nella società, nella politica, nella cultura in Italia?
Noi siamo una piccola cosa. Abbiamo seminato delle idee che spesso altri hanno ripreso e ci hanno aiutato a realizzare. Da soli non ce l’avremmo fatta. Ricordo naturalmente la campagna di molti anni fa per l’obiezione di coscienza al servizio militare. Noi siamo stati i primi. Ci guardavano tutti male. Poi è andata avanti. In questo momento l’impegno principale è la campagna per la messa al bando delle armi nucleari.