La suora camerunese suor Carine Nguimeya oggi opera nel santuario della Madonna della Rocca a Cornuda, nel trevigiano. Qui, camminando accanto ai giovani, porta sostegno e comprensione a chi ha bisogno di trovare la propria strada
«Sgattaiolavo in chiesa di nascosto perché i miei genitori mi avevano vietato di andarci preferendo che mi concentrassi sugli studi», racconta suor Carine Nguimeya, missionaria dell’Immacolata originaria del Camerun e ora a Cornuda, in provincia di Treviso, da meno di sei mesi. La casa delle religiose si trova nei pressi del santuario della Madonna della Rocca, in cima a un’altura che porta ancora i segni dei combattimenti della Prima guerra mondiale. «Quando il cielo è limpido si vedono il Piave e Venezia», spiega suor Carine guardando l’orizzonte. Anche nei giorni di nebbia, quando si vede solo qualche luce dai paesi circostanti, il paesaggio riesce a essere suggestivo. «C’è molta pace quassù, chi viene a correre spesso si ferma su una panchina a riflettere». Inevitabile davanti alla vastità del panorama. «Io sono cresciuta con un grande senso di apertura nei confronti della natura e della gente e sto bene nei luoghi in cui posso contemplare il Creato», spiega ancora la religiosa appartenente all’etnia bamiléké e originaria dell’Ovest del Camerun.
Di luoghi, negli ultimi dieci anni, suor Carine ne ha visti parecchi. Dal 2012 al 2015 ha studiato scienze dell’educazione presso l’Università pontificia salesiana a Roma. Poi è tornata in Camerun, nella capitale Yaoundé, per lavorare con vari gruppi di giovani. Tornata in Italia, è passata a Monza per coordinare il “cammino teen” locale e poi nel 2018 è approdata a Pozzuoli, dove ha seguito gruppi di bambini e ragazzi nella preparazione ai sacramenti, per poi dedicarsi anche all’animazione missionaria e alla creazione di un gruppo di discernimento. «Non c’era niente per i giovani in ricerca durante il periodo del Covid, eppure ragazzi e ragazze sentivano un forte bisogno di contatto e di vicinanza». Sono stati prima i frati cappuccini e poi un sacerdote congolese a chiedere a suor Carine di intervenire e di essere una figura di riferimento femminile soprattutto per le ragazze. «Ho notato una grande fatica, ma allo stesso tempo un grande bisogno di raccontarsi nei giovani», commenta la missionaria.
«I ragazzi hanno gli stessi problemi e le stesse preoccupazioni per il futuro in tutto il mondo», sottolinea suor Carine confrontando la realtà italiana con quella camerunese. «L’unica differenza è che in Camerun i giovani fanno meno fatica ad aprirsi, chiedono aiuto con più facilità, mentre qui a volte è molto difficile capire cosa pensano, serve un po’ più di pazienza. Ma in questi casi sono utili gli insegnamenti di don Bosco: stare con i ragazzi anche nel silenzio e nell’ascolto di quel silenzio che sicuramente avrà le sue ragioni di esistere».
Un bisogno di vicinanza e di sostegno nel trovare la propria strada che suor Carine ha scoperto essere presente anche nella comunità cattolica di Cornuda. La religiosa collabora con il centro missionario diocesano, il gruppo missionario della parrocchia e con il Segretariato unitario di animazione missionaria: «Ci siamo chiesti: come Istituti ad gentes, che cosa possiamo fare insieme?». Una delle risposte sono stati i cammini di animazione. Solo per fare un esempio, il percorso di Giovani e Missione della diocesi di Treviso, che l’anno scorso aveva visto soltanto 10 partecipanti, quest’anno ha accolto un numero doppio di ragazzi.
Ma se la missionaria riesce ad aiutare i giovani a scoprire il loro cammino, è solo perché lei stessa ha percorso una lunga strada di crescita personale e nella fede che l’ha portata da un luogo all’altro.
Fin da bambina ha viaggiato per tutto il Camerun insieme ai genitori e ai sette fratelli e sorelle: «Mio padre era guardia giurata, per cui lo seguivamo in tutti i suoi spostamenti. Quando io avevo circa 12 anni è stato trasferito nel Nord del Paese ed è lì che ho cominciato a sentire che mi mancava qualcosa». Un’amica poco più grande, che faceva l’animatrice e frequentava la chiesa locale, le aveva chiesto se fosse battezzata: «Quando ho risposto di no – racconta suor Carine -, ho provato una grande tristezza e un forte senso di vuoto», perché «anche se cristiani, i miei genitori non mi avevano battezzata», continua a spiegare la religiosa, che proviene da un contesto dove il cristianesimo è vissuto in maniera molto rigorosa. «Il percorso catecumenale dura tre anni e si conclude con gli esami, ai quali si può anche essere bocciati. Quando ho espresso il desiderio di intraprendere il cammino temevo che i miei genitori mi avrebbero detto di no, perché ci tenevano che dessi la priorità agli studi». Invece i genitori hanno acconsentito e così Carine a 15 anni ha ricevuto il battesimo.
«Vedevo le suore vestite di azzurro come un riflesso del cielo e della gloria di Dio. Amavo il fatto che dopo la Messa ogni sorella fosse circondata da un capannello di persone». Fedeli con cui parlare e fare comunità.
Ma la chiamata del Signore per suor Carine è arrivata più tardi, dopo l’incontro con un missionario polacco Oblato di Maria Immacolata che si era trasferito in Camerun e aveva costruito una chiesa e un ostello per disabili e si era impegnato in prima persona per garantire loro un percorso di riabilitazione. «Perché, mi chiedevo, un europeo benestante aveva lasciato tutto per venire al caldo e nella povertà a prendersi cura di questo popolo?». Carine non lo sapeva ancora, ma da quella domanda sarebbe iniziato il suo percorso vocazionale, superando una dopo l’altra le resistenze dei genitori.
Trasferitisi nel Sud del Camerun i genitori le avevano detto di non andare più in chiesa: basta, avrebbe dovuto dedicarsi agli studi per decidere che cosa fare da grande. Carine, influenzata da suo padre, aveva sempre apprezzato il valore della divisa, il senso dell’onore che deriva dal portarne una, ma non riusciva a smettere di pensare al missionario polacco. Pian piano si è resa conto che la divisa ideale, per lei, era quella della missionaria.
Nonostante il divieto dei genitori aveva chiesto a un’amica, figlia di un collega di suo padre, di portarla in chiesa. In quel periodo ci andava anche di nascosto, ed è così che ha conosciuto le missionarie dell’Immacolata. «Per questioni anche culturali i miei genitori non riuscivano a capire perché volessi consacrarmi al Signore. Non la vedevano come una cosa necessariamente negativa, ma in quanto donna e secondogenita, ai loro occhi sembrava che volessi rinunciare alla vita». Il padre sarebbe andato in pensione da lì a tre anni, e alla famiglia di Carine entrare in convento sembrava quasi una scelta egoistica perché avrebbe dovuto pensare a come mantenere i fratelli. Si respirava un brutto clima in casa.
«Ho chiesto al Signore di mandarmi un segno se davvero mi voleva con Lui. Dopo due settimane mio padre ha cominciato a cambiare idea ricordandosi del proprio padre». Il nonno di Carine era stato uno dei primi catechisti camerunesi negli anni Venti del Novecento. Dopo aver fatto la conoscenza di alcuni missionari e essersi convertito al cristianesimo decise di tenere solo una moglie. Una novità per quegli anni. Dopo l’approvazione del padre, restava solo la madre da convincere. «A un certo punto mia madre ha avuto un aneurisma e un’occlusione intestinale. Io avevo già iniziato il noviziato e a prendersi cura di lei sono state le consorelle. Ha sentito l’affetto e il sostegno delle suore e le si è sciolto il cuore». Aveva temuto di perdere la figlia, ma dopo la malattia ha cambiato idea e l’ha lasciata continuare il percorso che dal Camerun l’ha portata fino a Cornuda. «Come sta scritto nel Vangelo – commenta suor Carine – ha visto e ha creduto».