Discendenti di un grande popolo di nativi americani, vivono in bilico fra antiche tradizioni e molte contraddizioni. Come racconta un volume ,tra foto e testimonianze
Che cosa vuol dire essere lakota oggi? Che cosa significa discendere da grandi figure come Toro Seduto e Cavallo Pazzo e appartenere allo stesso tempo a una nazione come gli Stati Uniti? Le tradizioni e le sfide, la spiritualità e le discriminazioni, l’anima dei lakota, ma anche le loro fragilità vengono raccontate in un libro fotografico realizzato da Alessio Vissani, con il racconto dell’antropologo Alessio Martella e i disegni dell’illustratore Ivan Cavini. Edito da Postcart Edizioni (pp. 208, euro 35), è arricchito dalla prefazione di un lakota, Joseph J. Brings Plenty Sr, di cui pubblichiamo ampi stralci.
Per essere un indiano governativo l’unica cosa che serve è avere sangue indiano e un numero di immatricolazione. Per me essere lakota significa qualcos’altro, si basa su elementi fondamentali come la tradizione, la lingua e anche il luogo – le grandi pianure -, il territorio originario dove i nostri antenati vivevano cacciando il bisonte, questo è molto importante perché dal punto di vista lakota noi apparteniamo alla terra. Il nostro stile di vita, le nostre leggi tradizionali sono antiche, ci furono date da Wóhpe – la Donna Vitella di Bisonte Bianco – e dalle Nazioni degli Animali. Anche il Dna è importante perché ci collega ai nostri antenati, a queste terre e luoghi sacri. Tutto questo ci ha resi lakota, ma poi le cose cambiarono.
Nonna Elsie mi fece la prima gonna per la Danza del Sole, e mi disse: «La nostra via era la forma di preghiera più pura, ci fu insegnata dagli spiriti; vivi questa via fino in fondo, non ubriacarti, non fumare, non usare droghe e vivi seguendo le leggi che abbiamo, questo è l’unico modo in cui puoi essere un danzatore del sole». E così feci, molti anni fa, avevo ventotto anni alla mia prima Danza del Sole, fu il momento in cui cominciai a tornare alle mie tradizioni in modo più profondo.
Fino ai ventisette anni ho vissuto una vita dura e violenta, ho abusato di alcol e droghe, poi il mio čhiyé (“fratello maggiore” – ndr) Moe mi portò sulla collina. Allora danzai la mia prima Danza del Sole ed ebbi un sogno e fin da allora ho vissuto con questo sogno, questo impegno, e la mia vita è cambiata per sempre. Oggi, dopo molti anni di preparazione, con l’aiuto di altri parenti celebro una Danza del Sole, un sogno per la mia gente. Io non sono né un capo spirituale né un uomo sacro, per me la spiritualità fa parte della vita quotidiana, è parte della nostra fratellanza, del lavoro che faccio con i giovani, cercando di rafforzarli.
Oggi stiamo ancora soffrendo per centinaia di anni di genocidio e assimilazione forzata, le difficoltà che la mia gente sta affrontando non si possono superare facilmente. Alcune persone preferiscono lasciare la Riserva perché qui non c’è lavoro, ci sono poche opportunità per i nostri giovani, ci sono spacciatori lungo la strada o nella porta accanto e la vita non è facile. Fuori dalla Riserva, avrei potuto trovare un lavoro migliore e dare alla mia famiglia una vita migliore, ma qui è dove i miei nonni sono sepolti, questa terra è l’unica cosa che ci è stata lasciata, qui abbiamo dei legami familiari e delle connessioni. Come una volta, qui ci sono parenti dai quali imparare e che possono sostenerti. Quando i nostri giovani vanno in città non hanno nessuno, è ancora come negli anni Cinquanta ai tempi dei programmi di ricollocamento. Perciò cerco di prepararli a fare le loro scelte.
La scuola è un altro campo nel quale i nostri giovani non hanno opportunità sufficienti; ci sono programmi e istituti, come il Dartmouth College, che sono stati creati appositamente per educare e aiutare i nativi americani, ma oggi, per certi aspetti, sono diventati un’altra forma di sfruttamento della nostra cultura; pochissimi nativi americani cresciuti in povertà vengono selezionati per frequentarli. Tra questi, sono ancora meno coloro che vorrebbero tornare nella Riserva e aiutarci a far rivivere le nostre pratiche spirituali.
Aver vissuto questo travaglio ci ha resi consapevoli di queste dinamiche ingiuste e lo sottolineo perché, per molto tempo, non abbiamo messo in discussione il sistema. Eravamo talmente abituati da considerare normali tali discriminazioni. Se potessi tornare indietro […] mi piacerebbe realmente vivere ai tempi dei bisonti ma al momento non posso, dobbiamo vivere in questo mondo e cercare di farlo nel modo migliore.