Il neo cardinale filippino Pablo Virgilio David racconta l’impegno della diocesi di Kalookan accanto alle vedove e agli orfani dei tossicodipendenti uccisi dagli squadroni della morte di Duterte tra il 2016 e il 2022
Tra le ferite più profonde nelle grandi città delle Filippine ci sono quelle lasciate in eredità dalla sanguinosa “guerra alla droga”, scatenata dall’ex presidente Rodrigo Duterte. Una repressione violenta che ha visto la polizia e le bande paramilitari uccidere, secondo i dati ufficiali, 6.600 persone tra il 2016 e il 2022 (ma ci sono stime che parlano addirittura di 30 mila morti). Contro questa barbarie una delle voci più forti è stata quella di monsignor Pablo Virgilio David, vescovo di Kalookan, che è uno dei nuovi cardinali che Papa Francesco creerà il 7 dicembre. Pubblichiamo un brano di un intervento tenuto da lui al Pime il 19 ottobre scorso, in cui racconta l’impegno della Chiesa locale accanto agli orfani e alle vedove di questa tragedia.
C’è un principio fondamentale che in ogni ambito ci dà l’audacia di correre il rischio di lavorare per la pace: non rinunciare all’umanità. Ed è proprio questa la supplica che ho rivolto anche al governo durante la guerra contro le droghe illegali, quel periodo in cui il presidente stesso descriveva i tossicodipendenti come incarnazioni del male, minacce per la società. Diceva che l’unico modo per risolvere il problema della criminalità era sbarazzarsi dei colpevoli.
Ho espresso pubblicamente il mio disaccordo con lui. Gli ho detto: non puoi sbarazzartene semplicemente sterminando i criminali. Devi affrontare la situazione e il sistema che li genera. I tossicodipendenti sono persone malate, alcune delle quali potrebbero effettivamente arrivare a commettere crimini sotto l’effetto delle droghe. Ma possiamo lavorare per la loro riabilitazione.
Di fronte alla tragedia delle esecuzioni extragiudiziali la prima cosa che abbiamo fatto è stata istituire gruppi di sostegno per le vedove e gli orfani di questa guerra. Lo abbiamo fatto già nel 2016 con un programma che è tuttora attivo.
Abbiamo fatto partire borse di studio per i figli delle vittime. Pensate: c’è chi non ha perso solo il padre ma anche la madre; qualcuno addirittura tre membri della sua famiglia.
Ci siamo chiesti: come possiamo farci carico di queste vite? Come far sì che non vedano solo la tragedia di cui sono state vittime, ma abbiano una prospettiva? Così è nato il gruppo di sostegno per le vedove: alcune suore le radunano, le accompagnano con il programma della Caritas. Molte soffrono di sindrome post traumatica e allora vengono messe in contatto con alcuni esperti. Abbiamo anche creato un nuovo ministero di ascolto, portato avanti da persone adeguatamente formate da psicologi: lo abbiamo chiamato Kaagapay, che vuol dire “un supporto per i feriti”.
Oggi in molti vengono nella nostra diocesi per offrirsi come volontari nell’aiuto alle famiglie vittime delle esecuzioni extragiudiziali. Lavoriamo anche con altri partner: sono molto grato per la cura e la preoccupazione cresciute in questi anni.
A chi mi chiede che cosa possiamo fare perché ottengano giustizia, dico: prima di tutto assicuriamoci di non avere più un governo che uccida le persone. Esercitiamo un maggiore discernimento dei leader che scegliamo, senza lasciarci ingannare da promesse illusorie.
Abbiamo però di fronte anche un’altra sfida, forse quella più difficile: come promuovere un cammino di riconciliazione anche con quanti hanno commesso questi crimini? È difficile, perché il primo passo è ammetterli, mentre molti di loro li negano ancora: lo vediamo anche nelle audizioni che il Parlamento filippino sta compiendo rispetto a questa vicenda. Sono un’esperienza scioccante. Continuano a dire di aver ucciso perché rispondevano al fuoco, di essersi difesi. Ma non è vero: sappiamo che li uccidevano e basta. La tradizione cattolica ci ricorda che il primo passo per un cammino di riconciliazione è ammettere le proprie colpe. E la legge stessa è magnanima con chi lo fa.
A volte, però, questo succede: un alto ufficiale della polizia ha cominciato la sua testimonianza negando, poi sono arrivate le prime ammissioni, fino a scoppiare a piangere dicendo: «Mi dispiace». Il gesto della contrizione. È in quel momento che si comincia a capire che ci può essere redenzione. Perché la gente, anche quando compie gesti cattivi, non è cattiva in se stessa. Spesso si trova a essere parte di un sistema sbagliato, ma lo comprende solo dopo. La consapevolezza apre lo spazio per la redenzione, che passa anche attraverso la penitenza: fare qualcosa di concreto per riparare il male commesso.
Ma si può perdonare anche chi non è nemmeno pentito? Sappiamo di persone che l’hanno fatto. Perché? Con l’aiuto di facilitatori, sacerdoti, professionisti, sono stati in grado di liberarsi a tal punto dalla propria condizione di vittima da perdonare anche chi non chiede scusa. Ed è un gesto spontaneo che libera prima di tutto se stessi: molti stanno cominciando a sperimentarlo anche tra tra le vedove e gli orfani della nostra diocesi.
Amo usare l’immagine del kintsugi giapponese, l’arte di rimettere insieme una ciotola rotta con l’oro. La colla che viene usata per ripristinare l’integrità della ciotola è più preziosa della ciotola stessa. Siamo tutti persone ferite. Il cristianesimo non è mai stato pensato solo per i santi e i meritevoli. L’Eucaristia stessa non è un pasto esclusivo per i giusti, ma un corpo spezzato per le persone spezzate. È il motivo per cui Gesù ci dice: «Questo è il calice del mio Sangue, per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati».