Il 2024 è stato un anno straordinariamente ricco di elezioni in tutti i continenti: circa due miliardi di persone sono state chiamate alle urne in ben 76 Paesi. Non sono mancati rinvii e criticità soprattutto in nazioni guidate da giunte militari
Mentre l’attenzione di tutti era concentrata su quello strano esercizio di democrazia che sono le elezioni americane – vinte da un candidato con due processi per sovversione della democrazia stessa -, anche il resto del mondo è andato a votare. Quello che sta per concludersi, infatti, è stato un anno davvero eccezionale. Ben 76 Paesi – compresi i 27 dell’Unione Europea – sono stati interessati da eventi elettorali che hanno coinvolto – teoricamente – circa 2 miliardi di persone. Nella realtà, però, un dato che è emerso con preoccupante evidenza a tutte le latitudini è stato quello dell’alto tasso di astensione dei votanti, che hanno dimostrato scarso interesse e volontà di partecipazione a un processo democratico che, evidentemente, non sentono più come tale. E questo è il secondo punto, purtroppo comune a molte nazioni, dove le classi dirigenti hanno effettivamente svuotato la “democrazia” di qualsiasi senso e significato, riducendola a una mera “etichetta” che ha ben poco di attraente. Campagne elettorali manipolate da gruppi di potere politici, economici o militari, con l’ausilio di un’informazione-spazzatura, ma soprattutto anni di governo che, in molti contesti, non hanno garantito condizioni di vita dignitosa alle persone – ma riempito le tasche di pochi, pochissimi privilegiati -, hanno allontanato inesorabilmente la gente dalle urne. Secondo il Democracy Index, solo 43 Paesi – tra cui i 27 dell’Ue – hanno avuto elezioni che si possono definire autenticamente libere, giuste e democratiche: tutti gli altri, invece, non soddisfano le condizioni minime. Per non parlare poi di quelle nazioni dove le urne restano un miraggio che continuamente si allontana.
Una di queste è il Sud Sudan, che dopo aver ottenuto faticosamente l’indipendenza dal Sudan nel 2011, non è riuscito a progredire da nessun punto di vista, ma si è avvitato su se stesso in una spirale di violenze e conflitti da cui non riesce a uscire. E così anche le elezioni più volte rimandate e programmate per questo mese di dicembre sono state ancora una volta posticipate di due anni. È vero che la maggioranza della popolazione ha altre e ben più urgenti priorità, tipo quella di sopravvivere in un contesto di crisi – anche umanitaria – che non fa che peggiorare. È vero che gli attori stranieri che accompagnano il processo di pace e riconciliazione sono ben consapevoli che un’“elezione-farsa” avrebbe potuto provocare ulteriori conflitti. Ma è anche vero che, da nessun punto di vista, sembra ci sia la volontà di far sì che il Paese faccia qualche piccolo passo avanti sia in termini di consolidamento della democrazia sia in termini di miglioramento delle condizioni di vita della gente. Secondo la World Peace Foundation, in Sud Sudan si è consolidata «un’economia di guerra malsana», dominata dalla corruzione e dai “favori” tra leadership politiche, militari ed economiche, attraverso la concessione di incarichi e licenze, mentre la popolazione è ridotta alla fame per mancanza di tutto. L’Onu stima che 9 milioni di persone (il 73% della popolazione) abbia bisogno di assistenza umanitaria.
Non va meglio in Mali e in Burkina Faso, entrambi guidati da giunte militari golpiste. Quella che si è imposta al potere a Bamako nel 2020 ha accusato tutti coloro che spingono per organizzare le elezioni di essere «nemici del Paese». E così le votazioni, previste originariamente in febbraio, non si terranno finché «la fase di stabilizzazione non avrà raggiunto un punto di non ritorno», ha dichiarato il colonnello Assimi Goïta. Nel frattempo, e anche in questo caso sino a data da definirsi, ha sospeso, «per motivi di ordine pubblico, le attività dei partiti politici e quelle di carattere politico delle associazioni in tutto il Paese». Nel vicino Burkina Faso, il capitano Ibrahim Traoré, che ha guidato il colpo di Stato del settembre 2022, ha posticipato di ben cinque anni le elezioni previste lo scorso luglio.
Dall’altra parte del mondo, in Myanmar, lo scenario non è molto differente. Qui, il governo militare al potere dal 2021 – dopo aver deposto con un golpe la leader democratica Aung San Suu Kyi – ha deciso di condurre un censimento per poter redigere le liste elettorali e indire nel novembre 2025 elezioni che sin qui sono state continuamente rinviate a causa del conflitto interno. Peccato, però, che la stessa giunta controlli in maniera stabile solo il 14% del territorio. Per molti osservatori si tratta di una messinscena che servirebbe solo a dimostrare una parvenza di controllo sul Paese. Per le opposizioni, invece, si tratterebbe di una sorta di schedatura della popolazione. Ma il dato di fatto più evidente e tragico è che gran parte del Myanmar continua a essere devastato dal conflitto civile, che ha costretto quasi 4 milioni di persone ad abbandonare le loro case, con le milizie etniche che operano nelle diverse regioni e decine di partiti che sono stati sciolti.
Ma anche dove le elezioni si sono tenute in un contesto di apparente competizione democratica e multipartitica, i giochi spesso erano già fatti prima ancora di aprire i seggi. In Africa gli esempi non mancano. In Algeria, il presidente uscente Abdelmadjid Tebboune si è riconfermato lo scorso settembre con l’84,30% dei voti, mentre il suo omologo tunisino, Kaïs Saïed, ha superato in ottobre il tetto del 90% (90,7%) mentre l’affluenza è scesa sotto il 30 (28,8%). Ha fatto ancora meglio l’eterno presidente del Ruanda, al potere dal 2020 (dopo essere stato vicepresidente dal 1994), che ha stravinto con il 99,88% delle preferenze e il 98,20% dei votanti, secondo i dati ufficiali.
Nel capitolo “elezioni-farsa” vanno inserite anche quelle del Bangladesh e del Pakistan, che hanno portato, almeno nel primo caso, a imponenti rivolte di piazza. La rielezione di Sheikh Hasina, dopo che l’opposizione aveva annunciato il boicottaggio del voto, ha infatti suscitato un’ondata di manifestazioni con migliaia di studenti e operai in prima linea, brutalmente represse dalle forze dell’ordine. Questa volta però il regime, che negli anni è diventato sempre più autoritario e liberticida, non è riuscito ad avere la meglio e la prima ministra Hasina è stata costretta a dare le dimissioni. Lo scorso 8 agosto, Muhammad Yunus, vincitore del premio Nobel per la Pace nel 2006, ha assunto l’incarico di primo ministro ad interim con il gravoso compito di risollevare il Paese dalla crisi economica e di organizzare nuove elezioni più giuste e libere.
Non lo sono state certamente quelle parlamentari del Pakistan, lo scorso febbraio, segnate da ritardi, militarizzazione dei seggi e blocco della telefonia mobile. Analisti ed esperti hanno sollevato seri dubbi sulla credibilità dell’intero processo elettorale. Infatti, se a vincere le elezioni è stato il partito dell’ex premier Imran Khan (sfiduciato, arrestato e tuttora in carcere), alla guida del governo è stato scelto il leader della Lega musulmana, Shehbaz Sharif (fratello di Nawaz, già in esilio autoimposto per evitare una condanna per corruzione). Per ottenere la maggioranza, ed evitare che il partito di Khan tornasse al governo, Sharif ha dovuto allearsi con i nemici di sempre: gli esponenti del Partito del popolo pachistano.
Infine, in America Latina, il caso più controverso dell’anno è stato certamente quello del Venezuela, dove il presidente uscente Nicolás Maduro si è riconfermato lo scorso 28 luglio con il 51,2% dei voti, secondo il Comitato elettorale nazionale (Cne). Non la pensano allo stesso modo l’oppositore Edmundo González Urrutia e la leader del suo partito María Corina Machado, che non hanno riconosciuto l’esito del voto così come sei Paesi dell’America Latina. Significativamente il Parlamento europeo ha assegnato il Premio Sacharov 2024 per la libertà di pensiero proprio «a María Corina Machado e al presidente eletto Edmundo González Urrutia per la loro coraggiosa lotta per ripristinare la libertà e la democrazia in Venezuela». A inizio ottobre, gli osservatori statunitensi del Carter Center hanno reso pubbliche le copie originali degli atti ufficiali degli scrutini che «mostrano la vittoria del candidato dell’opposizione con il 67% delle preferenze». Per il momento però Maduro rimane al suo posto. Così come rimane saldamente al potere il leader russo Vladimir Putin, riconfermato con l’88,48 delle preferenze in marzo. Ma questa è un’altra storia. O forse è sempre la stessa.