In collaborazione con una fondazione ebraica, dal 2008 il Centro Giovanni Paolo II dell’Angelicum accoglie ogni anno a Roma un gruppo di religiosi e laici da tutto il mondo. In 130 sono già rientrati in 40 Paesi, comprese le frontiere più calde dell’Asia
Da diversi Paesi del mondo per un anno insieme a Roma per studiare i fondamenti del dialogo interreligioso. E passo dopo passo costruire una vera e propria rete di giovani leader in grado di gettare ponti tra cristiani, ebrei e persone di altre fedi. È il percorso che dal 2008 porta avanti il Centro Giovanni Paolo II per il dialogo interreligioso, un’iniziativa nata dalla collaborazione tra la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (l’Angelicum) e la Russell Berrie Foundation, un ente statunitense che continua l’opera iniziata da questo filantropo ebreo newyorkese scomparso nel 2002.
L’idea iniziale era quella di dare vita a un’istituzione che aiutasse giovani operatori pastorali cattolici di tutto il mondo a incontrare in profondità la storia e la vita presente del mondo ebraico. Lungo il cammino, però, quest’attenzione si è allargata, dando vita a un percorso di formazione di persone impegnate a 360 gradi nella promozione del dialogo interreligioso. Sono una decina ogni anno le borse di studio messe a disposizione per un curriculum di studi che – insieme a corsi di tipo accademico – prevede anche un viaggio a Gerusalemme e momenti di condivisione della vita quotidiana con persone di altre confessioni religiose. In quindici anni sono stati formati già circa 130 tra sacerdoti, religiose, laici provenienti da 40 diversi Paesi del mondo. E tra i borsisti sono state accolte anche persone non cristiane: nella classe di quest’anno, per esempio, è presente un monaco buddhista, proveniente dal Myanmar. Per tutti studiare insieme a Roma è anche un modo per condividere le esperienze, come raccontano alcuni degli attuali corsisti. «Cerco di comprendere differenze e similitudini tra le religioni monoteiste e buddhismo – racconta il monaco Ashin Mandalarlankara -. Questa esperienza mi sta aiutando a capire di più le altre comunità religiose che vivono accanto a noi in Myanmar. Tutte le religioni parlano di pace e compassione, hanno al cuore del loro insegnamento una prospettiva umanitaria. Ma il punto è non fermarsi alle parole e tradurre tutto questo in azioni concrete».
Il riferimento è anche alla grave situazione politica del suo Paese, dopo che il colpo di Stato dei militari di due anni fa si è trasformato in un conflitto con migliaia di morti e tanta devastazione. «La gente è arrabbiata e ha molte domande sulla religione – commenta ancora il monaco -. Ci chiede: voi che cosa fate? Se i nostri leader si fermano solo alla comprensione dei testi sacri la distanza non potrà che aumentare».
Ci sono però anche altre frontiere dove la sfida del dialogo tra le religioni oggi si fa ogni giorno più urgente ma anche impegnativa. Lo spiega bene suor Josmy Jose, religiosa salesiana, che ha vissuto il suo ministero alla periferia di Bangalore, constatando come anche tra gli adolescenti e i giovani l’odio settario seminato dagli estremisti stia crescendo. Che fare? «Alle famiglie racconto una storia che ho visto con i miei occhi – spiega -. Avrò avuto 7 o 8 anni quando in India vi sono stati gli scontri sanguinosi dopo la distruzione della Babri Masjid, la moschea di Ayodhya rivendicata dagli indù. Nel mio villaggio del Kerala non c’erano mai state tensioni tra indù, cristiani e musulmani. Non ricordo più le parole che si dicevano in quei giorni; ma ricordo bene che al villaggio abbiamo protetto i musulmani. E ai genitori dico: insegnate ai vostri figli a guardare l’altro come un fratello».
Dall’India viene anche padre Jackson Johnson, sacerdote della diocesi di Kollam. Il suo vescovo l’ha mandato a Roma a studiare per prepararsi a insegnare in seminario. Ma padre Jackson ha voluto inserire nel suo curriculum anche questo percorso sul dialogo interreligioso: «Ho capito che nella nostra società indiana sta diventando una questione sempre più calda. È importante che i sacerdoti di domani conoscano meglio le altre religioni».
Dalla diocesi di Karachi viene invece Anthony Khasif, un laico pachistano. «Quando era ancora il nostro arcivescovo, il cardinale Joseph Coutts mi chiamò a far parte della Commissione diocesana Giustizia e pace: ero il più giovane – ricorda -. Ci occupiamo della difesa dei diritti umani. E proprio in questo lavoro ho capito che nel mio Paese anche tanti musulmani sono presi di mira dagli estremisti. Ci conosciamo, si sono create relazioni tra noi. Così adesso quando promuoviamo qualche manifestazione per la difesa dei diritti dei cristiani e delle altre minoranze, sono in prima fila con noi».
L’incontro con i popoli e le religioni dell’Estremo Oriente è invece la frontiera di suor Teresa Tran Ngoc Minh Sa, religiosa vietnamita. «Il mio Paese conta 54 gruppi etnici, l’incontro è una sfida quotidiana – racconta -. Un modo bello che abbiamo per realizzarlo è la carità: molte diocesi hanno gruppi in cui cattolici, buddhisti e seguaci della religione del Cao Dai (un culto diffuso in Vietnam, ndr) vanno insieme a servire i poveri». Ma suor Teresa ne ha sperimentato anche un altro molto personale, a partire dalla passione per la musica: «Con un’amica Cao Dai ci siamo dette: “Anche se su alcune cose non ci capiamo, possiamo cantare insieme”. La musica è consolazione e terapia. Soprattutto nel mondo ferito di oggi».