Nel poverissimo Paese africano, il caffè rappresenta un quarto delle esportazioni totali, ma il cambiamento climatico sta minacciando la preziosa coltura: «Le inondazioni si sono moltiplicate», spiega l’attivista Daniella Ingabire
Grande come la Sicilia e con dolci pendii lasciati in eredità dalla formazione della Rift Valley, il Burundi è famoso per essere un Paese dalle mille colline e uno dei più poveri al mondo. Nella piccola nazione nel cuore dell’Africa gran parte della popolazione, circa 13 milioni di persone, vive con poco più di due dollari al giorno ma – se non ci fossero particolarissime condizioni climatiche – i burundesi starebbero decisamente peggio.
Proprio nel clima caratterizzato da caldo e freddo mai eccessivi, le piante di caffè hanno trovato il loro habitat naturale e crescono benissimo. Così bene che sugli altipiani nella regione nord-orientale dei Grandi Laghi ha origine una qualità di Arabica pregiata, che può inserirsi nel mercato degli specialty coffee distinguibili per note aromatiche precise e ricercate e commercializzabili a un prezzo più alto. Si può dire dunque che il caffè burundese è un prodotto di nicchia: sia per il suo sapore, unico al palato, sia per i numeri. Ogni anno il Paese ne produce in media 200 mila sacchi da 60 kg (ben poco rispetto al Brasile che ne fa 53,7 milioni), esportati quasi esclusivamente in Europa. Con queste quantità, nella torta delle importazioni del Vecchio continente il caffè burundese concorre solo per lo 0,4%.
Nel mucchio è quasi invisibile. Invece per i burundesi il caffè è la vita: tra tutti i Paesi coltivatori e produttori tra Sud America, Asia e Africa, il Burundi è la seconda nazione che maggiormente dipende dalla produzione di questa pianta, la quale rappresenta addirittura un quarto delle esportazioni totali. Significa che per i 551 mila piccoli agricoltori che nelle campagne coltivano caffè in piccoli appezzamenti, spesso accanto ad avocado, mais e fagioli, se le piantine crescono o non crescono bene, se i chicchi vengono venduti oppure no, fa differenza. In un Paese che ancora vive molto di autosussistenza e di scambio, il caffè è una fonte di denaro corrente che torna utile per comprare quaderni, medicinali o pagare piccoli lavori di manutenzione. È l’unico fondo di investimento cui attingere per fare progetti o alimentare iniziative di sviluppo.
«Grazie alle piante di caffè – racconta per esempio Claver, agricoltore della provincia di Ngozi – sono riuscito a comprarmi un terreno tutto mio dove poter coltivare senza nessun problema. Sono riuscito a costruire la casa, acquistare una mucca e mandare molti dei miei nove figli all’università. Io non ho nessun’altra entrata o forma di reddito e perciò questa è la coltura a cui mi dedico di più. Perderla significherebbe cadere in povertà».
Eppure, purtroppo, il rischio c’è. Anche in Burundi, proprio come nel resto del mondo, il clima sta cambiando. Entro il 2050 le temperature aumenteranno tra 1,5 e 2,5 gradi e per quella data nel Paese africano le piogge saranno più estreme, eroderanno le colline e riempiranno più spesso il lago Tanganica – su cui il Burundi si affaccia – facendolo straripare. Già oggi le inondazioni si sono moltiplicate: tra ottobre 2022 e aprile 2023 più di 239 mila persone sono state colpite dai disastri causati dai cambiamenti climatici e perciò il Burundi – che contribuisce appena per lo 0,02% alle emissioni globali di gas serra – è considerato tra i 20 Paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici. «Le inondazioni – spiega Daniella Ingabire, 24 anni, una delle poche attiviste climatiche del posto – hanno distrutto uffici, ospedali, scuole. Già il Burundi affronta la povertà e i giovani non hanno lavoro, se si somma anche l’impatto della crisi climatica le cose non potranno che peggiorare». «Noi – aggiunge dal campo un coltivatore di caffè – vediamo che frequentemente cade la grandine. Quando arriva ci distrugge tutti i frutti e compromette il raccolto. E poi ci sono sempre più malattie che colpiscono le piante».
Per l’Arabica, una varietà delicata che si sviluppa solo a certe latitudini, tra i mille e i duemila metri e a una temperatura tra i 18 e i 25 gradi, si apre uno scenario tragico. Secondo uno studio dell’Università di Sydney entro il 2050 oltre il 75% della terra coltivabile ad Arabica non sarà più adatta a farla crescere. Più specificatamente il rapporto 2023 dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) spiega che in Africa orientale la zona di crescita del caffè dovrà risalire in altitudine e, se le temperature aumenteranno tra gli 1,5 e i 2 gradi, si ridurrà: si ipotizza del 10 o forse anche del 30%. Se così fosse, per continuare a far maturare i chicchi, bisognerebbe trasportare le piante altrove con il rischio di compromettere la biodiversità o di spingere i locali a tagliare foreste pur di fare posto al caffè.
Proprio per contrastare la perdita di boschi l’Unione Europea – che vuole diventare il primo continente carbon neutral entro il 2050 – ha approvato il regolamento contro la deforestazione Eudr: secondo la norma, che entrerà in vigore a pieno regime dal 30 dicembre 2024, le aziende che importano sette materie prime, tra cui olio di palma, soia, cacao e – appunto – caffè, devono provare che per produrre quei beni non sono state distrutte foreste dopo il 2020, pena una multa salatissima che può arrivare al 4% del fatturato.
Dal punto di vista occidentale, il regolamento spinge nella direzione giusta, ovvero verso una maggiore trasparenza della filiera e catene di approvvigionamento sempre più sostenibili. Dall’altro lato, però, la norma risulta di difficile applicazione per i piccoli agricoltori (che sono il 95% di coloro che coltivano caffè nel mondo): anzitutto per l’accesso alle informazioni e alle tecnologie Gps utili per la geolocalizzazione dei campi da cui molti sono esclusi e poi per i costi amministrativi e burocratici che la certificazione anti-deforestazione potrebbe comportare. Secondo l’ultima edizione del rapporto di settore Coffee Barometer, gli importatori guarderanno con più interesse alle zone in cui ci sono grandi piantagioni, come il Brasile, che possono facilmente garantire la tracciabilità, e penalizzeranno i coltivatori di caffè su piccola scala. Questi potrebbero vendere il loro prodotto a mercati con norme ambientali meno rigorose, annullando l’impatto benefico che la legge prevedeva, oppure essere costretti ad abbandonare la filiera da cui dipende il loro futuro.
IL DILEMMA DEGLI SCARTI INQUINANTI
Una delle sfide del secolo per il caffè è la gestione degli scarti. Lungo la sua intricata filiera globale – dalla produzione all’importazione fino alla torrefazione e al consumo – il caffè dissemina una quantità di avanzi di cui ci si sbarazza un po’ troppo a cuor leggero. Nelle prime fasi del metodo lavato, applicato sull’Arabica in molti Paesi africani tra cui il Burundi, i frutti rossi del caffè – chiamate anche “drupe” o “ciliegie” – sono portati in una stazione di lavaggio, dove sono inseriti in una macchina spolpatrice e i chicchi puliti per poi essere essiccati al sole. Per avere una tonnellata di caffè verde si ottengono due tonnellate di bucce e polpa che vengono accumulate in grandi fosse a cielo aperto. Alcune stazioni di lavaggio le lasciano lì, come scarti; altre invece, come la cooperativa di Nyakarambo nella provincia di Kayanza, sfruttano gli avanzi ricchi di potassio, azoto, fosforo come fertilizzanti. Anche l’acqua indispensabile per lavare le ciliegie è ricca di proteine e zuccheri che possono contaminare le falde acquifere e che perciò dovrebbe essere purificata. Purtroppo, però, la filtrazione chimica, che presuppone l’acquisto di sostanze ad hoc, non è diffusa: nel 2020 il ricercatore Emile Bisekwa all’Institut des Sciences Agronomiques du Burundi ha analizzato l’acqua fuoriuscita da 19 stazioni di lavaggio e ha rilevato che nessuna rispetta i requisiti di purificazione previsti. E così oggi, per la sua pessima qualità e abbondante quantità, l’acqua del lavaggio del caffè è una delle cause maggiori di inquinamento idrico in Burundi. (i.b.)