Nel nome di padre Stan

Nel nome di padre Stan

A tre anni dalla morte del gesuita che ha dedicato la vita a difendere il diritto alla terra delle popolazioni indigene dell’India, il centro Bagaicha, da lui fondato nello Stato del Jharkhand, porta avanti la sua lotta a favore degli ultimi

Tre anni fa la foto di padre Stan Swamy è stata aggiunta alla lunga fila di immagini incorniciate che adornano le pareti di uno dei corridoi principali del centro Bagaicha a Ranchi, capitale del Jharkhand, uno degli Stati indiani a maggioranza tribale. In fondo allo stesso corridoio c’è ancora la sua camera, una stanza spartana occupata da un letto, una scrivania e un armadio. «Io ero presente quando padre Stan è stato arrestato», dice padre P.M. Tony, nuovo direttore della struttura. Creata, secondo le parole del suo fondatore, per «tutti coloro che si interessano alle questioni che riguardano le persone emarginate».

Imprigionato con accuse fittizie nel carcere di Mumbai, trattenuto nonostante i suoi 84 anni e una diagnosi di Parkinson, Stanislaus Lourduswamy – questo il suo nome completo – è morto il 5 luglio 2021 dopo aver contratto il Covid. Ma di fatto a ucciderlo è stato il governo indiano.

Originario del Tamil Nadu, nell’India meridionale, studiò sociologia e fu per oltre dieci anni direttore dell’Indian Social Institute di Bangalore, centro di ricerca e formazione per soggetti emarginati gestito dai gesuiti. Nella seconda metà degli Anni 80 si trasferì a vivere insieme agli adivasi, le popolazioni autoctone dell’India che, in nome di sempre nuovi progetti di sviluppo, vengono ancora oggi derubate della loro terra e delle risorse che si trovano nel sottosuolo. Prendendo spunto dall’esperienza gesuita in America Latina, padre Stan leggeva la realtà riconoscendo nella teologia della liberazione un modo per combattere per i diritti degli ultimi.

Nel 2000, dopo la creazione da parte del governo indiano dello Stato del Jharkhand (che detiene il 40% delle ricchezze minerarie di tutto il Paese), il gesuita si spostò a Ranchi e creò il Bagaicha social center. In pieno stile adivasi: nella lingua locale, infatti, la parola “bagaicha” indica uno spiazzo all’interno della foresta che ospita tutti i tipi di piante e in cui i membri delle comunità indigene si riuniscono per prendere le decisioni. Una sorta di “agorà” dei boschi.

Al centro del giardino sorge inoltre una lastra di roccia su cui sono stati scolpiti i nomi di coloro che hanno dato la vita per la causa tribale, incluso, come ultimo, quello di padre Stan. Che «aveva l’abitudine di chiudere gli occhi in preghiera di fronte a questa stele tutte le mattine per cinque minuti», racconta padre Tony.

Secondo la tradizione delle popolazioni munda, che erigono questi monumenti funerari in pietra chiamati “pathalgadi” all’ingresso dei loro villaggi, le anime dei martiri restano in questo mondo sotto forma di spiriti. Nelle aree rurali, tribali cristiani e di religione sarna, di stampo animista, convivono fianco a fianco.

Padre Stan venne arrestato l’8 ottobre 2020 con l’accusa di essere un collaboratore delle milizie maoiste. Tuttavia, come è emerso dall’in­dagine, i file trovati sul suo computer, che ne determinarono l’incarcerazione, erano stati inseriti da un hacker ignoto.

Il suo lavoro oggi è portato avanti da quattro gesuiti e una suora.

«C’è molto da fare, e le questioni di cui si occupava padre Stan sono andate peggiorando», commenta padre Tony. La legislazione indiana prevede che le grandi aziende dedite all’estrazione mineraria possano impossessarsi delle terre adivasi se hanno ottenuto l’approvazione dei locali consigli tribali. Ma, spiega il direttore del centro, nella maggior parte dei casi le comunità tribali non sanno che se decidono di cedere i loro terreni hanno diritto a un’equa retribuzione, per cui spesso accettano dalle aziende estrattive cifre di gran lunga inferiori rispetto a quanto previsto dalle norme. «Fino a una decina di anni fa c’erano molte più persone istruite – continua il gesuita originario del Kerala – ma poi il Bharatiya Janata Party (il partito ultranazionalista indù da cui proviene anche il primo ministro Narendra Modi) ha chiuso centinaia di scuole nel Jharkhand dicendo che non c’era un numero sufficiente di studenti e costringendo così le popolazioni locali ad andare in istituti privati, che le famiglie però non riescono a permettersi».

La formazione degli adivasi oggi è in parte condotta da suor Leena, appartenente alla congregazione delle Suore di carità di Gesù e Maria, che al Bagaicha si occupa di tradurre in lingua locale la documentazione che viene consegnata alle comunità tribali, i cui membri spesso sono analfabeti. «Cerchiamo di dar vita a scuole informali, istruendo le persone anche sui loro diritti, e le sosteniamo nelle scelte contro le grandi aziende. Ma visitando i villaggi ci rendiamo conto che alla popolazione manca tutto, per esempio i farmaci», spiega la suora, aggiuntasi alla squadra di lavoro al centro di Ranchi da circa un anno. «Da parte del governo non vengono nemmeno costruiti sistemi di irrigazione, nel tentativo di spingere la gente ad andarsene».

«A causa dei cambiamenti climatici, le colture rendono sempre meno», spiega ancora padre Tony. «Co­stretti ad abbandonare le terre, i tribali finiscono per diventare lavoratori a giornata nelle miniere, spesso senza misure di sicurezza, mentre i giovani emigrano in altri Stati indiani». E, proprio in conseguenza del loro basso livello di istruzione, si ritrovano preda di altre aziende sfruttatrici.

Una questione di cui al centro Bagaicha si occupa padre Se­bastian Larka, anch’egli gesuita, ricercatore e attivista. «I giovani si trasferiscono nel Sud, nel Tamil Nadu, nel Kerala. Lavorano nell’edilizia e nella costruzione di strade. Ma arrivano a destinazione grazie a intermediari. Nella maggior parte dei casi le aziende non pagano i lavoratori dicendo di aver già pagato i reclutatori. In altre parole, è traffico di esseri umani», taglia corto il sacerdote. «Ogni giorno, grazie a una rete di contatti da una parte e dall’altra del movimento migratorio, cerchiamo di risolvere i problemi dei lavoratori tribali, primo fra tutti il mancato pagamento degli stipendi. Ma anche gli incidenti sul lavoro, i problemi con la polizia e l’aumento di suicidi».

Oltre a sensibilizzare gli adivasi riguardo a queste questioni per favorire una migrazione sicura e legale, i gesuiti a Ranchi tengono diversi seminari destinati a studenti, attivisti, ricercatori e avvocati. «Ma oggi siamo sotto sorveglianza, non possiamo fare tutto quello che eravamo soliti fare – commenta padre Sebastian -. L’ufficio di investigazione locale fa un sacco di domande, soprattutto quando organizziamo gli eventi di formazione».

Eppure studenti, attivisti e volontari visitano di frequente il centro creato da padre Stan. È il caso per esempio di Deepti Mary Minj, una giovane ricercatrice cattolica di ecologia politica di etnia oraon che supporta il lavoro dei gesuiti e gestisce i profili social del Bagaicha center. «È difficile non lasciarsi demoralizzare dalla situazione», dice di ritorno da una visita al distretto di Dumka, dove di recente sono sorte nuove miniere e tra i tribali è aumentato il tasso di alcolismo. È infatti solo grazie ai distillati di riso se molti riescono a lavorare nei giacimenti di carbone senza misure di sicurezza. «Ciò che mi dà la forza di continuare è il senso di giustizia. Spesso è una lotta solitaria, ma se il fine è la verità, questa prima o poi viene fuori». E mostra una realtà che è l’altra faccia dell’India propagandata da Narendra Modi, quella dove, in nome dello sviluppo del Paese, si nascondono abusi di vario tipo nei confronti delle fasce più deboli della popolazione.

«Padre Stan era solito dire: “Non sarò uno spettatore muto”», continua Deepti, che considera il gesuita la propria fonte di ispirazione. «Finché continua la lotta per la giustizia, padre Stan vive».