Nel Paese dei cedri, trascinato nel conflitto mediorientale, duemila volontari della Caritas si prendono cura degli sfollati interni: più di un milione, su quattro milioni e mezzo di abitanti. «Tra noi siamo una famiglia, oltre le differenze settarie»
«Qualche giorno fa, mentre stavo distribuendo i pasti caldi in uno dei centri di accoglienza che ospitano le famiglie sfollate, si è sentito un rumore provenire dalla strada: era solo un’automobile con il carburatore malandato, ma tutti i bambini, terrorizzati, sono corsi dai genitori piangendo perché temevano che si trattasse di un attacco come quelli a cui erano sopravvissuti…».
Il racconto di Charly Khalil, vice coordinatore dei giovani volontari della Caritas libanese, fotografa in modo efficace il trauma subito in queste settimane da moltissimi suoi concittadini, a cominciare dai più piccoli. Dall’inizio delle operazioni militari israeliane oltre il confine, sono circa un milione e duecentomila le persone che hanno dovuto lasciare precipitosamente le aree più calde del Paese: dai villaggi del Sud fino alla regione della Bekaa, non lontano dalla frontiera con la Siria, ma anche la periferia meridionale della capitale Beirut. Si tratta delle zone in cui più è radicata la presenza dell’Hezbollah, il “partito di Dio” a matrice musulmana sciita che, accanto ad Hamas a Gaza, incarna l’opposizione violenta a Israele nell’area. Ma a finire nel mirino delle bombe sono stati, come sempre, anche e soprattutto i civili, appartenenti a tutte le comunità etno-religiose di una nazione storicamente mista.
«Tra le famiglie arrivate dal Sud moltissime sono cristiane», conferma Charly, 28enne originario di Kasrouane, sul Monte Libano, che da quando ricopre il suo ruolo di coordinamento nella Caritas si è trovato a gestire una serie incessante di emergenze: «Prima abbiamo avuto la grave crisi economica e finanziaria scoppiata nel 2019, che la Banca Mondiale ha definito una delle peggiori a livello globale, poi la pandemia di Coronavirus, e ancora la devastante esplosione dell’agosto 2020 al porto di Beirut», racconta. Ogni volta, i libanesi hanno subito un duro colpo, tanto che il livello di povertà in pochi anni, complici la svalutazione della lira e la disoccupazione giovanile galoppante (stimata intorno al 60%), ha raggiunto picchi mai visti. «In questa situazione, il conflitto regionale divampato dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 ha rappresentato il colpo di grazia e la recente campagna israeliana in territorio libanese ci ha precipitati in un incubo».
Eppure, di fronte agli sfollati che nelle prime settimane di emergenza occupavano, con accampamenti di fortuna, la centrale piazza dei Martiri e l’iconica corniche della capitale, sono stati tantissimi i giovani che hanno deciso di mettersi in gioco per dare una mano: «Quelli che si sono mobilitati attraverso la Caritas sono più di duemila in tutto il Paese», racconta Charly, tracciando una panoramica degli interventi messi tempestivamente in atto per venire incontro ai concittadini sradicati dalle loro case.
Famiglie che si sono aggiunte al milione e mezzo di rifugiati siriani accolti in questi anni, non senza difficoltà, in una piccola nazione che in tutto conta quattro milioni e mezzo di abitanti.
«Ci occupiamo degli sfollati accolti nelle scuole pubbliche, riconvertite all’ospitalità dal ministero dell’Istruzione, e nei tanti monasteri del Monte Libano, ma anche di quelli che sono riusciti a sistemarsi nelle case dei propri parenti e che però hanno bisogno di tutto», spiega il volontario. «Abbiamo fatto fronte alla prima emergenza fornendo materassi, coperte, cibo e oggi garantiamo assistenza medica, pasti caldi a pranzo e cena in collaborazione con il Programma alimentare mondiale, kit per l’igiene personale ma anche giocattoli per i bambini, che sono i più traumatizzati di tutti. Per loro organizziamo momenti di animazione in gruppo, oltre a programmi di assistenza psicologica mirati». Oltre a Beirut, i giovani operano in tutti i 36 settori in cui è divisa la Caritas nazionale: al Nord, dove si sono riversati in massa gli sfollati, ma anche nelle zone più vicine al fuoco israeliano, dalla valle della Bekaa fino a Tiro, al Sud.
Dappertutto, la situazione dei profughi è drammaticamente simile: «La settimana scorsa – racconta Charly – in uno dei centri di accoglienza ho distribuito dei questionari in cui le famiglie potevano indicare i propri bisogni più urgenti. Ognuno ha scritto diverse cose, ma il tema che le riassumeva tutte era: “Vogliamo tornare nelle nostre case!”. Anche perché oggi gli adulti non possono lavorare e quindi non hanno modo di mantenersi, mentre i bambini hanno dovuto lasciare la scuola». Le prospettive, però, sono cupe. Le foto che gli sfollati conservano sui propri cellulari, e che spesso condividono con i giovani volontari, mostrano le loro case in macerie, colpite dalle bombe. Anche se gli attacchi dovessero cessare, è già chiaro che molti dei villaggi del Sud non saranno abitabili a lungo e le persone non hanno idea di dove potranno andare. Senza contare che anche la terra, contaminata in molti casi dal fosforo bianco usato dall’esercito israeliano, andrà curata, come le ferite della gente.
«La preoccupazione accomuna tutti i libanesi», conferma Charly. «Ci rendiamo conto che nessuno è al sicuro e qualche volta non abbiamo più nemmeno la forza di pregare per la pace. Eppure, noi giovani della Caritas continuiamo a crederci e a impegnarci, nonostante le incognite sul futuro. Noi stessi, che lavoriamo fianco a fianco ogni giorno, senza alcuna distinzione settaria, rappresentiamo la convivenza possibile». I volontari, infatti, ragazzi dai 14 ai 34 anni, non sono solo cristiani ma appartengono alle diverse confessioni che caratterizzano il Paese dei cedri: musulmani, sunniti e sciiti, e anche drusi. «Tutti rispettiamo i valori insegnati dalla dottrina sociale della Chiesa, senza alcun problema. Servire insieme chi ha bisogno permette di creare un legame speciale: per questo tra di noi siamo più che amici, ci sentiamo come una grande famiglia. E ciò che ci dà speranza è che, ogni volta che il Paese si trova di fronte all’ennesima crisi o emergenza, ci sono sempre nuovi giovani che si rendono disponibili per dare una mano».
Insieme ai cristiani, ma non solo, oggi si guarda con particolare partecipazione al Natale alle porte, che quest’anno arriverà in mezzo a una situazione più critica che mai. «Nonostante tutto – racconta questo giovane dal sorriso solare – ci siamo già messi in moto e cercheremo di portare avanti le attività che promuoviamo ogni anno: concerti natalizi, attività e laboratori per i bambini, momenti di incontro e festa per le famiglie. Vogliamo che tutti possano vivere lo spirito di questo momento liturgico forte e faremo in modo di distribuire pacchi speciali in particolare ai nuclei che si trovano in condizione di bisogno. I cristiani vivranno anche le celebrazioni religiose: la Novena, la Messa di mezzanotte».
E poi si darà il benvenuto a un nuovo anno, per il quale tutti qui sperano che possa portare una soluzione diplomatica al conflitto in corso, per tornare almeno a respirare. Anche se tenere viva la speranza non è facile. Non a caso, le stime dicono che negli ultimi due anni il 10% dei libanesi ha deciso di lasciare la propria patria. E Charly, ha mai pensato di andarsene? «No – risponde risoluto -. Non penso che potrei vivere altrove. Questo è il Paese in cui sono nato e in cui vorrei morire».