Non c’è bisogno di parlare la stessa lingua per capirsi, è sufficiente l’amore
«Quanto basta?». È la domanda che mi ha accompagnato per tutto l’anno, come il nome del Cammino del Pime che ho seguito. Al momento dell’iscrizione sapevo soltanto che l’invito era per tutti coloro che avevano voglia di partire mettendo nello zaino solo “quanto basta” per riscoprire se stessi, Dio e l’altro. Per questo lo stupore è stato grande di fronte all’inaspettata proposta di un’esperienza estiva in missione.
I miei cinque compagni e io siamo partiti per l’Albania sapendo solo il nome della città in cui eravamo diretti. Il resto l’avremmo scoperto giorno per giorno. Siamo partiti, fidandoci di chi aveva scelto per noi.
All’arrivo siamo stati accompagnati in un campeggio vicino al mare che avrebbe ospitato 75 giovani e adulti con disabilità per le vacanze estive. Le stanze erano semplici container o baracche di legno, avremmo mangiato sotto un tendone e condiviso i bagni con gli ospiti. Ci si alzava presto, si faceva colazione tutti insieme e poi subito in spiaggia; pranzo, riposo e di nuovo spiaggia, cena e balli. Ogni giorno.
Presto questa routine ha iniziato a essere pesante. Come potevamo essere “sale della terra” e “luce del mondo”? Ci sembrava di non fare nulla: ascoltavamo, scherzavamo, ballavamo, ma era abbastanza?
La risposta è arrivata presto. Dopo la prima settimana ci siamo allontanati dal campeggio per un weekend. Quando siamo tornati avevamo nel cuore un entusiasmo nuovo e una strana sensazione: ci sembrava che stessimo tornando a casa. Appena varcato il cancello gli ospiti ci sono corsi incontro dicendoci (o facendoci capire) che il campo senza noi era più triste. Educatori e responsabili ci hanno detto che erano mancati l’entusiasmo e l’affetto degli “italiani”. Ancora commossi da quell’accoglienza ci siamo seduti ai nostri posti per la cena: eravamo a casa. Quella sera abbiamo capito le parole che Rroc, custode volontario e “nonno” del campo, ci aveva detto la prima sera per tranquillizzarci: «Non c’è bisogno di parlare la stessa lingua per capirsi, basta l’amore».
Nei giorni seguenti ci siamo accorti che la routine non era più un peso: significava imparare a stare ai tempi di qualcun altro rallentando i nostri. Molte cose ci stupivano. L’affetto che i ragazzi ci chiedevano e l’amore che erano in grado di darci gratuitamente. La sensibilità che dimostravano alcuni di loro, che intuivano le nostre emozioni con un solo sguardo. Rroc e la moglie Rosa, che trattavano tutti come veri nipoti. Noi compagni di missione siamo stati grati l’uno dell’altro: ci siamo aiutati a vicenda a superare le difficoltà, rendendo unico ogni momento insieme. Alla fine, forse, l’abbiamo capito “quanto basta”: quanto basta per essere gruppo, per sentirsi a casa, per comunicare, per amare, per sentirsi amati.