Nonostante l’isolamento, negli ultimi anni la nazione ha cambiato volto: oggi Pyongyang è una metropoli vivace e le critiche ad alcune scelte del partito non sono più un tabù. Ma rimane aperta la questione dei diritti umani
I gruppi di turisti occidentali ricominciano ad affollare gli hotel e le strade di Pyongyang dopo che, per più di quattro anni, il Paese si è chiuso in un completo autoisolamento. Era, infatti, dall’inizio del 2020 – quando Kim Jong Un decise di chiudere ermeticamente il Paese per proteggerlo dalla pandemia portata dal virus SARS-CoV-2 – che lo Stato asiatico non accettava più stranieri entro il proprio territorio. Lo scorso febbraio, con una mossa assai significativa dal punto di vista politico, il leader nordcoreano ha iniziato ad aprire i confini ai primi gruppi di russi a cui, poche settimane dopo, erano seguiti i cinesi. Ora, tolte le ultime restrizioni, anche europei, canadesi, australiani tornano in Corea del Nord. «Mi aspettavo di trovare un Paese al limite della miseria, degradato, con una popolazione ostile al forestiero, invece mi ritrovo in una nazione ben organizzata, pulita, in parte anche efficiente e sviluppata» mi dice Jade, canadese di Vancouver, alla sua prima visita in Nord Corea.
Le parole di Jade si ripetono spesso tra i gruppi di turisti che arrivano a Pyongyang e, pur descrivendo la realtà di nazione spesso bistrattata e oltraggiata dai media, rappresentano pur sempre una visione parziale. Come spesso accade, e non solo nei Paesi retti da dittature, ai gruppi viene fatto vedere lo spicchio migliore e succoso della società: i nuovi quartieri moderni della capitale, biblioteche, ospedali e scuole modello, fabbriche in piena attività, ristoranti che offrono piatti internazionali…
Per capire un Paese complesso e poco conosciuto come la Corea del Nord occorre da una parte scostare quella cortina di stereotipi di cui si nutrono gli articoli e i servizi giornalistici, ma dall’altra è anche necessario cercare di cogliere la faccia meno visibile del Paese, quel dietro le quinte che, nei tour organizzati, si cerca spesso di occultare.
La nazione, definita spesso come un “regno eremita” per la passata difficoltà di visitarla (oggi è abbastanza semplice entrarci), ha in realtà cambiato totalmente volto da quando, nel 2011, Kim Jong Un ha preso le redini del potere. I mutamenti, iniziati già sotto la guida di Kim Jong Il, il padre dell’attuale leader, hanno subìto un’accelerazione impensabile sino a pochi anni prima, trasformando l’aspetto scenografico delle città, ma anche quello più interstiziale di una società meno anchilosata e oppressa dall’ideologia di regime.
La capitale ha abbandonato quel grigiore e quell’atmosfera spartana che le appartenevano sin dalla sua rifondazione, negli anni Sessanta, dopo che i bombardieri statunitensi l’avevano praticamente rasa al suolo durante la guerra tra il 1950 e il 1953. Oggi Pyongyang, assieme ad altre città meno frequentate dagli stranieri, è una metropoli vivace; il traffico, inesistente fino a una decina di anni fa, oggi è sostenuto seppur (per fortuna) non ancora a livelli della Cina, gli scaffali dei negozi e dei centri commerciali ospitano prodotti di consumo cinesi, ma anche sudcoreani, europei, giapponesi, mentre nuovi appartamenti più attenti al risparmio energetico ospitano le famiglie più facoltose e socialmente più in vista. Oramai l’appartenenza al partito non è più una prerogativa imprescindibile alla scalata sociale: è molto più importante avere conoscenze o parenti all’estero, frequentare le giuste università, in particolare la Kim Il Sung University, ma anche la gettonatissima Pyongyang University of Science and Technology, l’unico ateneo privato del Paese dove, oltre alle materie dell’ideologia di Stato, si studiano anche Adam Smith, Keynes e l’economia di mercato.
I nordcoreani hanno da tempo abbandonato la ritrosia nell’avvicinare gli stranieri e, seppure non sia possibile criticare apertamente la famiglia del leader, la disapprovazione verso alcune scelte del partito e dei loro amministratori comincia a farsi strada. Lo stesso Kim Jong Un ha spesso criticato amministratori locali, rei di agire più per il proprio interesse che per il bene comune. Nelle campagne, come sempre accade, le riforme sono più lente a farsi strada, ma rispetto a una decina di anni fa la qualità di vita è nettamente migliorata. Le comuni agricole e le fabbriche hanno introdotto la meritocrazia: «Chi lavora di più e bene, è giusto che abbia una vita migliore» è la frase che sempre più spesso sento ripetere dalle guide che nel corso degli anni mi hanno accompagnato nel Paese.
I negozi statali, sebbene più riforniti in confronto agli anni passati, non offrono tutti i beni di cui hanno bisogno le famiglie, ma per questo ormai ci sono i mercatini dei contadini e i raccolti dei terreni in concessione alle singole famiglie, oltre che alle quote di raccolto suddivise tra i membri delle cooperative agricole. «Pur continuando a esserci sacche di malnutrizione, in Corea del Nord non si muore più di fame» mi spiega un rappresentante della Croce Rossa Internazionale, nel Paese per ispezionare la distribuzione degli aiuti inviati da nazioni occidentali, Cina, Giappone, Stati Uniti e Corea del Sud.
Il tema dei diritti umani continua a essere il tasto dolente dei rapporti tra Pyongyang e l’Occidente, in particolare sul piano religioso. Dopo che Kim Jong Un nel 2018 aveva ventilato la possibilità di una visita del Papa, l’avvento di Biden alla Casa Bianca e quello di Yoon Suk Yeol alla Casa Blu – residenza del presidente della Repubblica della Corea del Sud – hanno raffreddato i rapporti con Pyongyang. L’atteggiamento delle Chiese evangeliche sudcoreane, che hanno rapporti con ambienti conservatori statunitensi, ha influito negativamente anche sulla Chiesa cattolica, che in Corea del Nord aveva iniziato un dialogo con il regime, propenso a dare più spazio a un’organizzazione che aveva al vertice una figura riconosciuta come il Papa e con cui era più facile instaurare un rapporto di collaborazione.