Chiudere o non chiudere, questo è il dilemma. Sono anni che la decisione di svuotare Dadaab, il più grande campo di rifugiati al mondo, continua a rimbalzare da una parte all’altra senza trovare una soluzione. Un gioco alquanto brutale per gli oltre 300 mila profughi, in maggioranza somali, alcuni dei quali residenti nel campo dal 1992.
«La decisione del governo di prendere di mira i rifugiati somali è un atto di persecuzione di massa , illegale e, quindi, incostituzionale – aveva sentenziato il 9 febbraio scorso il giudice della Corte suprema keniota, John Mativo -. L’annuncio della chiusura di Dadaab da parte del ministro dell’Interno, Joseph Nkaissery, ha rappresentato un eccesso rispetto alle sue competenze».
Il governo del presidente Uhuru Kenyatta, al momento preoccupato per le prossime elezioni generali dell’8 agosto, ha dichiarato di voler fare appello. Alcuni esponenti del governo, tra cui il vice-presidente William Ruto, hanno infatti definito Dadaab una “piattaforma del terrorismo”. Gli attacchi contro l’università di Garissa nel 2015 e il centro commerciale Westgate di Nairobi nel 2013, in cui morirono oltre 200 civili, sarebbero stati pianificati dentro il campo. «È quindi ora di smantellare Dadaab per ragioni di sicurezza – aveva dichiarato Ruto al Summit globale umanitario tenutosi l’anno scorso in Turchia -. Europa e Stati Uniti devono condividere con noi questo peso».
Secondo le organizzazioni umanitarie sul terreno, è difficile prevedere quale direzione potrebbero prendere i profughi nel caso si ritrovassero all’improvviso senza una casa. I residenti sono somali, etiopi, eritrei, sudanesi e sudsudanesi. Fratelli e sorelle di quei migranti che stanno rischiando la loro vita per disperazione e in parte sono già arrivati in Europa in questi ultimi anni. Sotto la tacita approvazione dell’ex segretario generale, Ban Ki-moon, e del nuovo capo, Antonio Guterres, le Nazioni Unite sembrano in favore della chiusura «solo se i rimpatri dei rifugiati saranno volontari».
Dietro le quinte, però, è difficile capire quali sono le dinamiche in corso tra Kenyatta e Guterres, ex Alto commissario Onu per i rifugiati. Una cosa è certa: c’è molta confusione legata anche alle attuali dure politiche anti-migrazione promosse dall’Unione Europea e dagli Stati uniti. Analisti, agenzie umanitarie e organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno espresso la loro contrarietà, a volte però dividendosi sull’analisi o sulla soluzione.
«La comunità internazionale deve fare la sua parte per cambiare la percezione negativa legata alla migrazione – afferma un rapporto del Rift Valley Institute (Rvi), un istituto di ricerca indipendente con sede in Kenya -. Sfruttare i migranti come capri espiatori per ragioni di sicurezza non è una risposta valida». A tale riflessione ha risposto Wairimu Munyinyi-Wahome, consigliera per la protezione presso il Norwegian Refugee Council (Nrc): «Nel caso di un ritorno nella poverissima e instabile Somalia – ha spiegato Munyinyi-Wahome -, molti profughi, metà dei quali sono minorenni, potrebbero essere più facilmente reclutabili dagli estremisti islamici di al-Shabaab».
Secondo la Solutions Alliance, un gruppo formato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur), la Banca mondiale e lo stesso governo somalo, un rimpatrio forzato in Somalia «destabilizzerebbe l’intero Paese vanificando i risultati ottenuti fino ad ora». Kate Allen, direttore della sezione inglese di Amnesty International, ha criticato la decisione dicendo che: «I profughi in Kenya sono scappati dalla stessa violenza che le autorità dicono di combattere. Se Dadaab chiuderà – continua Allen -, le conseguenze saranno disastrose per centinaia di migliaia di persone».