Non si ferma il pugno di ferro del Marocco contro gli attivisti sahrawi. Pesanti condanne al termine di un processo criticato anche da molti osservatori internazionali
Lo scorso 19 luglio la Corte di appello di Rabat ha condannato 23 attivisti sahrawi, 8 all’ergastolo e altri 11 a pene comprese tra i 20 e i 30 anni di carcere, con l’accusa di avere ucciso undici poliziotti marocchini durante lo smantellamento del campo di Gdeim Izik. Il “campo della dignità”, così è stato in seguito ribattezzato, è la protesta che secondo Noam Chomsky ha dato inizio alle Primavere arabe, che da qui si è estesa alla Tunisia, all’Egitto e a gran parte dei Paesi del Nordafrica e del Medio Oriente.
I fatti risalgono al 2010 quando un gruppo di 20 mila civili sahrawi si accampò nel deserto a circa 10 chilometri da El Ayoun, la capitale del Sahara Occidentale, per denunciare la mancanza di diritti civili, economici e politici, per protestare contro lo sfruttamento illegale delle risorse di quella regione da parte delle forze di occupazione marocchina. Nella notte tra l’8 e il 9 novembre 2010 le forze di sicurezza marocchine assaltarono con inaudita violenza il campo, senza risparmiare donne e bambini. Alla crescente mobilitazione pacifica del popolo sahrawi nei territori occupati del Sahara Occidentale corrispondeva un brutale intervento repressivo delle forze speciali marocchine, probabilmente uno degli scontri più duri dopo il cessate il fuoco proclamato dalle Nazioni Unite nel 1991.
Anche il Centro Robert F. Kennedy (RFK) denunciò nei giorni successivi all’assalto il clima di paura e repressione regnante nel Sahara Occidentale. El Ayoun rimase a lungo isolata e posta sotto assedio dalle forze speciali marocchine che contestualmente arrestarono 24 attivisti sahrawi accusandoli di omicidio. Dopo due anni e mezzo di detenzione preventiva, gli imputati furono sottoposti al giudizio di un Tribunale militare che, nel febbraio 2013, condannò alcuni di loro all’ergastolo e altri a pene detentive oscillanti tra i 20 e i 30 anni di carcere. Gli osservatori internazionali presenti alle udienze avevano già all’epoca evidenziato numerose irregolarità del procedimento fondato su confessioni coatte e prove inesistenti.
Nel luglio 2016, la Corte di Cassazione in seguito alla decisione del Comitato delle Nazioni Unite contro la Tortura che accusò il Marocco di aver sottoposto a tortura uno degli attivisti e grazie alle pressioni di numerose organizzazioni internazionali di difesa dei diritti umani come Amnesty International, Human Rights Watch, lo stesso Centro Robert F. Kennedy che chiedevano un giusto processo decise di annullare la sentenza emessa dal tribunale militare. Tra le principali anomalie che hanno costretto la Corte di Cassazione marocchina a invalidare la sentenza: la totale mancanza di prove a carico degli imputati, la mancata comunicazione dei nomi delle vittime, le confessioni estorte sotto tortura.
Il 26 dicembre 2016 la Corte d’appello di Rabat avvia così un nuovo procedimento contro gli attivisti sahrawi che si realizza ancora una volta in un pesante clima di intimidazione nei confronti degli imputati, del pubblico e di chi tentava di dimostrare all’esterno del tribunale. Gli osservatori internazionali provenienti da Francia, Spagna, Norvegia, Portogallo e Italia che hanno presenziato alle varie udienze, spesso sospese all’ultimo momento per scoraggiare la loro partecipazione, si è concluso dopo sette mesi senza prove e con un dibattimento pieno di irregolarità processuali confermando, di fatto, le dure condanne emesse nel 2013 per 21 dei 24 prigionieri politici sahrawi, che già da sette anni si trovano rinchiusi nelle carceri marocchine: ergastolo per Ahmed Sbai, Brahim Ismaili, Abdalahi Lejfauni, Larosi Abdelyalil, Mohamed Bachir Butanguiza, Mohamed Bani, Abhah Abdalahi Ahmed Sidi, Sid Ahmed Lamjaid; 30 anni per Naama Asfari, Mohamed Burial, Chiej Banga; 25 anni per Hasan Dah, El Husain Ezaui, Mohamed Lamin Haddi, Mohamed Embarek Lafkir, Mohamed Juna Babait; 20 anni per Mohamed Tahlil, El Bachir Khada, Abdalahi Taubali Deich Daf condannato a 6 anni e mezzo e Bakay Arabi condannato a 4 anni e 6 mesi sono oggi liberi dopo aver trascorso in carcere un periodo superiore alla condanna disposta dal Tribunale civile.
«Il processo è da considerarsi nullo da tutti i punti di vista», spiega il giurista e osservatore internazionale basco Juan Soroeta, che evidenzia la totale estraneità alle accuse di omicidio di Namaa Asfar, in quanto lo stesso fu arrestato il 7 novembre 2010, il giorno precedente lo smantellamento del campo di Gdeim Izik, circostanza in cui i poliziotti marocchini sarebbero stati uccisi
Ancora una volta il Regno del Marocco non ha perso occasione per dimostrare la brutalità dell’occupazione del Sahara Occidentale. Non è un caso che tutti i condannati siano attivisti che da anni sono impegnati nella lotta nonviolenta per l’autodeterminazione del popolo sahrawi. Molti di loro hanno trascorso già gran parte della loro giovane esistenza in carcere per perseguire un ideale di libertà per sé e il proprio popolo.
Sono tutte persone miti ma molto determinate, l’ho potuto constatare di persona durante i miei brevi viaggi nei territori occupati del Sahara Occidentale, il primo risalente ormai al 2007. Si è trattato di una sentenza politica, di una punizione esemplare, in un momento in cui il Regno del Marocco è alle prese con una nuova crisi interna dopo la tragica morte nell’ottobre 2016 di Mouhcine Fikri, il venditore ambulante di pesce rimasto ucciso in uno scontro con la polizia.