Solo 2,5 persone su 100 vaccinate nel continente contro 65 nei Paesi più ricchi. Intanto, la pandemia ha ripreso a diffondersi e preoccupa specialmente in Uganda e Sudafrica
«Siamo al completo!». L’esclamazione di Janet Adong, caposala dell’unità Covid-19 del Lacor Hospital di Gulu, nel Nord dell’Uganda, non lascia dubbi. Mentre smonta dal turno di notte, racconta una situazione che peggiora di giorno in giorno: 39 pazienti affamati d’aria, una media di cinque nuovi ricoveri al giorno, assistiti da un totale di 19 persone tra medici, infermieri, personale sanitario e no. «Altri chiamano da Kampala o dal West Nile, e chiedono di essere curati qui», testimonia Dominique Corti, medico e presidente dell’omonima Fondazione che porta avanti il lavoro dei suoi genitori, Lucille e Piero, che a questo ospedale – oggi uno di più grandi ed efficienti del Paese – hanno dedicato la vita. Non solo loro, però. Al Lacor Hospital si è letteralmente consacrato fratel Elio Croce, missionario comboniano, che qui è vissuto per quasi cinquant’anni anni ed è morto proprio di Covid-19 lo scorso 11 novembre.
Sembrava che l’emergenza fosse finita e invece in Uganda, come in altre parti dell’Africa, la pandemia ha ripreso a colpire in maniera molto preoccupante. Ufficialmente e a livello di continentale, il numero totale dei casi confermati è “solo” di 5 milioni 400 mila. E quello dei decessi sfiora i 141 mila (in Italia, 4.6 milioni di casi e 128 mila morti). Ma si tratta, appunto, di dati “ufficiali”, che scontano l’inadeguatezza dei sistemi sanitari africani e la scarsa capacità di realizzare test e raccogliere dati.
Il caso dell’Uganda è lì a dimostrarlo. Il Paese si sta, infatti, confrontando con la seconda ondata di Coronavirus, segnata da un allarmante aumento del 200% dei nuovi casi se si confrontano le prime due settimane di giugno con le due precedenti (come pure in Repubblica Democratica del Congo e Zambia).
«Sono giorni intensi – conferma Dominique Corti da Gulu – in cui siamo impegnati a cercare di capire da direttori, medici e infermiere la situazione, le necessità, le priorità e in che modo la Fondazione possa essere utile. Oggi la sfida più grande è la richiesta di ossigeno». L’ospedale, infatti, dispone di un proprio impianto costruito due anni fa, ma attualmente non riesce a soddisfare le esigenze di così tanti malati. «Si stanno cercando nuovi concentratori d’ossigeno, dispositivi mobili che producono il prezioso gas. Verranno impiegati per i pazienti di altri reparti, che non hanno bisogno di flussi o concentrazioni elevate. Si lascerà così ai malati di Covid-19 la produzione garantita dall’impianto. Proprio in questi giorni sono stati ordinati cinque concentratori a un fornitore inglese, per un totale di 7.400 euro e ne sono stati riparati sei. Intanto, il nostro dipartimento tecnico sta cercando i pezzi di ricambio, ad oggi introvabili, per ripararne altri».
Secondo la dottoressa, però, per affrontare questa nuove emergenza servono anche farmaci, guanti, mascherine. «Davvero tante, se pensiamo che i dipendenti sono oltre 700. In media si usano 35 mila mascherine chirurgiche al mese (il costo è di circa 3.000 euro); un’esigenza che raddoppierà. Il ministero della Salute ha infatti prescritto di usare la doppia mascherina per maggior protezione». «Non dobbiamo perderci d’animo – insiste Dominique -. Il Lacor Hospital esiste per la gente. Quella gente che ora ha fame d’aria e di vaccini. Proprio come noi in Italia sei mesi fa».
La situazione non è molto diversa in Sudafrica. Il Paese, infatti, è alla prese addirittura con la terza ondata di Coronavirus. Nella settimana del 7-13 giugno, sono stati infatti segnalati 121.170 nuovi casi in tutto il continente, la maggior parte dei quali nella regione meridionale (61%), con un picco proprio in Sudafrica (42%). Secondo l’Istituto superiore di sanità, «il Sudafrica rimane “un caso” nel continente, con il 34% (1.747.082) di tutti i casi confermati da inizio epidemia e con il maggior numero di morti (57.731, il 42,4%), seguito da Egitto, Marocco, Etiopia, Algeria, Kenya e Nigeria: il totale dei decessi in questi Paesi rappresenta complessivamente il 71% del totale. Probabilmente l’andamento della pandemia in Sudafrica è dovuto a più fattori, tra i quali la raccolta dati più efficiente che in altri Paesi, la demografia della popolazione, anziana con una o più co-morbilità, e molti casi di tubercolosi e resistente».
Troppo pochi vaccini
Sono 51 i Paesi africani che stanno usando attualmente i vaccini ricevuti tramite il meccanismo internazionale Covax, con 35,2 milioni di dosi somministrate, meno dell’1% di quelle globali (2,2 miliardi). Alla stessa data del 13 giugno, in Europa erano state somministrate 254 milioni di dosi (11,5%) e negli Stati Uniti 299 milioni (13,6%). Ciò equivale a 28,5 dosi per 100 persone a livello globale, 65 dosi nelle nazioni ad alto reddito, mentre in Africa si scende a 2,5 dosi per 100 persone e addirittura a 1,5 dosi nella regione subsahariana.
I vescovi della Conferenza episcopale della regione australe (Sacbc) hanno denunciato la «profonda crisi di solidarietà o mancanza di essa che prevale nel sistema politico internazionale», in cui ciascun Paese si è impegnato a mettere in sicurezza la propria popolazione, con risposte egoistiche e un vero e proprio «nazionalismo dei vaccini» adottato dai Paesi più ricchi.