In un continente dove un quinto della popolazione soffre la fame, occorre rilanciare un’agricoltura sostenibile e rispettosa dell’ambiente e delle comunità. Per garantire cibo e dignità
Amadou ha lo sguardo fisso al greto del fiume ancora in secca. A questo punto della stagione dovrebbe già essere pieno d’acqua. E invece niente. Anche il sorcier au crabe, l’indovino, è perplesso. Lui e il suo granchio sono disorientati da queste stagioni che non rispettano i cicli di una volta. Difficile propiziare i raccolti con un clima così impazzito. Gli agricoltori non si raccapezzano più tra periodi di siccità e improvvise inondazioni, mentre i pastori sono costretti a modificare i loro atavici percorsi al limitare del deserto, andando a invadere terreni tradizionalmente off limits. Meno acqua, meno cibo, meno soldi e più conflitti…
I cambiamenti climatici in Africa hanno introdotto un elemento fortemente destabilizzante in un mondo rurale ancora molto arcaico e tradizionale, che si regge in larga parte su un’agricoltura familiare di sussistenza. Eppure è proprio questo mondo che continua a sfamare gran parte dell’Africa. Tra vecchie e nuove criticità. E molte interessanti potenzialità.
L’Africa è il continente con le più grandi estensioni di terre arabili: circa 400 milioni di ettari, quasi la metà delle terre coltivabili di tutto il pianeta. Tuttavia, il 90% non viene utilizzato, e l’Africa contribuisce solo per l’1% al fabbisogno alimentare mondiale. Soprattutto, però, un quinto della sua popolazione è tuttora affamato.
Secondo il 2014 African Agriculture Status Report molti piccoli agricoltori africani si trovano sempre più a dover fronteggiare la severa minaccia di mutamenti climatici fuori controllo.
«Che lo si accetti o no – sottolinea il coordinatore del Rapporto, David Sarfo Ameyaw – il cambiamento climatico è un fatto che dobbiamo affrontare, specialmente qui in Africa». Altrimenti, avverte, il numero di persone malnutrite rischia di crescere del 40% di qui al 2050, passando dagli attuali 225 milioni a 355 milioni.
Affrontare questa sfida, dunque, è di vitale importanza per il futuro dell’Africa, dove, nonostante il processo di urbanizzazione massiccia, ancora oggi il 65% della popolazione è dedita ad attività legate all’agricoltura. Questo scenario si collega strettamente alla questione demografica, che è l’altro grande tema se si guarda all’Africa di domani. Entro il 2050, infatti, il continente avrà 2,4 miliardi di abitanti e la sua produzione di cibo dovrebbe aumentare del 260% per sfamarli tutti. Un’altra sfida titanica.
I mutamenti climatici (aumento delle temperature, diminuzione delle precipitazioni, ripetute catastrofi naturali…) hanno riportato alla ribalta anche molte questioni ambientali a lungo trascurate, perché dietro ci stanno spesso enormi interessi: dalla desertificazione che avanza alla deforestazione che distrugge vasti polmoni verdi dell’Africa; dall’erosione dei suoli alla diminuzione della biodiversità.
Il tutto come conseguenza di decenni di inefficienze e di mancati investimenti, ma anche di business e corruzione, che hanno condannato l’agricoltura – specialmente quella dei piccoli produttori – a un ruolo marginale ed estremamente precario nell’economia africana. Poco interessante da un punto di vista elettorale, il mondo rurale è stato abbandonato dalla politica, con le pesanti conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: mancanza di modernizzazione, inesistenza di sistemi idrici efficienti, scarsità di infrastrutture per trasporto, trasformazione e conservazione dei prodotti, ridotto accesso ai sistemi energetici e alle nuove tecnologie, mancanza di investimenti e di accesso al settore finanziario (crediti, risparmio, assicurazioni) e pochissima assistenza legale e amministrativa.
Secondo l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, presidente di Africa Progress Panel (App), «l’accelerazione del cambiamento in Africa dovrà passare obbligatoriamente per una reale valorizzazione della nostra agricoltura e della nostra pesca che permettono a due terzi degli africani di guadagnare la loro vita». Ancora oggi, tuttavia, in Africa subsahariana circa l’85% delle coltivazioni viene gestito a livello familiare, in contesti di grande precarietà e fragilità, e il 98% degli africani usa solo acqua piovana per l’irrigazione. Inoltre, più del 60% della manodopera in questo settore è costituita da donne che, specialmente in ambito rurale, rappresentano un anello particolarmente vulnerabile della società, cui non sono riconosciuti diritti e pari opportunità.
«La maggior parte degli africani – sostiene Kanayop F. Nwanze, presidente del Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad) – lavora nel settore agricolo e da questo trae sostentamento. Bisogna smetterla di trascurarli se davvero vogliamo portare l’Africa a un futuro di salute, pace e sicurezza». Per migliorare la situazione, secondo Nwanze, basterebbe introdurre «semplici tecnologie come il miglioramento dei semi, dell’irrigazione e dei fertilizzanti. Calcoliamo che un’irrigazione adeguata potrebbe da sola incrementare la produzione fino al 50%». È quanto è stato enfatizzato anche nel corso di una grande conferenza, organizzata nel settembre 2014 ad Addis Abeba, l’African Green Revolution, che si inseriva nelle iniziative dell’Anno dell’agricoltura e della sicurezza alimentare proclamato dall’Unione Africana.
Ma al di là dei tanti discorsi e dei molti rapporti, l’agricoltura in Africa non sembra fare significativi passi avanti. Anzi, le principali tendenze registrate negli ultimi decenni sollevano non poche perplessità e controindicazioni.
Innanzitutto, il fenomeno del land grabbing. Ad oggi, è impossibile sapere con esattezza quanta terra africana è stata ceduta a governi, multinazionali e imprese per produzioni destinate essenzialmente all’export. L’Ifad parlava di 2 milioni e mezzo di ettari in soli cinque Paesi. Ma oggi potrebbero essere molti di più, vista l’opacità del fenomeno, che è ormai diffuso in diverse parti dell’Africa e interessa particolarmente Paesi con democrazie fragili e, paradossalmente, con problemi di sicurezza alimentare. Tra i principali, si segnalano Sudan e Sud Sudan, Etiopia, Mali, Madagascar, Mozambico… Con l’aggravante che, secondo la ong Oxfam, il 60 per centro degli investimenti in campo agricolo viene fatto in Paesi dove la sicurezza alimentare non è garantita, ma dove i due terzi di questi stessi investimenti sono finalizzati a produrre per l’esportazione (es. biocarburanti e mangimi, oltre che cibo).
Lo stesso vale per le monocolture, che continuano a condizionare le economie (e i sistemi agricoli) di diversi Paesi africani, “concentrati” sulla produzione di pochi prodotti da esportazione come caffè o cacao e dunque soggetti alle fluttuazioni di mercato degli stessi.
Di contro, l’Africa che potrebbe sfamare se stessa (e anche una parte di mondo) continua ad aumentare le importazioni di cibo. Attualmente nel continente si importano derrate alimentari per 40 miliardi di dollari, una cifra enorme che non ha fatto che aumentare negli ultimi anni (erano 13 miliardi nel 2005 e 22 nel 2007). Colpa dell’insufficiente produzione, ma anche della mancanza di infrastrutture come strade e trasporti, per cui costa meno importare riso dalla Cina o dalla Thailandia che farlo arrivare da una regione all’altra del Senegal, solo per fare un esempio. Altro scandalo, quello delle pratiche criminali e illegali nel settore della pesca e dello sfruttamento delle foreste. È sempre Kofi Annan a stigmatizzare i miliardi di dollari che l’Africa perde ogni anno per questa ragione, denunciando «una casta corrotta che arricchisce le sue fortune personali, mentre la stragrande maggioranza degli africani di oggi e di domani non può profittare delle risorse collettive suscettibili di fornire a tutti entrate, mezzi di sussistenza e una migliore alimentazione».
Di fatto, però, non pare di vedere istituzioni sovranazionali o governi che siano effettivamente impegnati a trovare soluzioni serie e durevoli a questi problemi. Al contrario, un fatto drammatico e su vasta scala come l’epidemia di Ebola in Africa occidentale ha messo in luce in tutta la sua drammaticità la debolezza di questi Stati, dei loro sistemi economici e della loro capacità di garantire la sicurezza alimentare. Secondo la Fao e il Programma alimentare mondiale, nei Paesi colpiti dell’epidemia (Guinea Conakry, Sierra Leone e Liberia, con 24 mila casi e quasi 10 mila morti) ci sarebbe oggi una vera e propria “emergenza fame”. Sarebbe legata direttamente e indirettamente alla diffusione del virus, che ha portato alla chiusura delle frontiere e all’abbandono delle colture, ha messo in ginocchio l’economia e i commerci. Attualmente si stima che almeno 2 milioni e mezzo di persone soffrono la fame in questi Paesi. Infine, ultimo paradosso, in un continente dove si muore ancora di fame, sta aumentando il numero degli obesi. Il problema, ovviamente, non è neppure paragonabile alle situazioni che si trovano in Europa o Nord America (dove il 70% della popolazione è sovrappeso e il 30% è obeso), ma sta comunque prendendo piede, specialmente in Nordafrica o in Paesi come Sudafrica e Swaziland. Secondo la Fao, l’urbanizzazione e la sedentarizzazione delle popolazioni giocano un ruolo fondamentale – nonché il divario sempre più accentuato tra élite di ricchi e la maggioranza dei poveri -; ma soprattutto molto dipende dell’agricoltura e dai sistemi alimentari nel loro complesso, che non permettono una corretta diversificazione della dieta, provocando carenza da una parte e sovrappeso dall’altra.
Tuttavia, nonostante le tante raccomandazioni, rapporti, ricerche, moniti e “ricette” non si intravedono reali cambiamenti di rotta. Le storie più incoraggianti vengono spesso dalla base, dove esistono molte buone pratiche di agricoltura, che rispetta il territorio e le comunità. Ma a livello “macro” continuano a prevalere gli interessi dei più forti.
Il tempo però sta per scadere. E non lo dicono le solite cassandre “altermondiste”, ma molti autorevoli scienziati. O si va verso sistemi alimentari sostenibili, rispettosi dell’ambiente e della biodiversità, che garantiscano il diritto umano fondamentale al cibo e all’acqua per tutti, o l’Africa (e il pianeta) rischieranno di ingoiare bocconi molto amari. MM