Gli attentati del 15 gennaio rappresentano una grande sfida per il nuovo governo appena insediato. Ma mettono in discussione anche la pacifica convivenza tra le religioni. «Troveremo le risorse morali per superare anche questo dramma», afferma un insegnante. Ma per molti, niente sarà più come prima
«Non avevano davvero bisogno di tutto questo!». K. Traoré, giornalista del Burkina Faso, si fa interprete dello sgomento e dell’incredulità dei suoi concittadini, all’indomani degli attentati che il 15 gennaio hanno colpito al cuore la città di Ouagadougou, uccidendo 29 persone, tra cui un bambino italiano di 9 anni, Misha Santomenna.
Appena tre giorni dopo la sua formazione, il primo governo della storia del Burkina Faso uscito da elezioni democratiche ha inaugurato il suo mandato nel peggiore del modi. Se già le aspettative degli elettori a livello sociale ed economico erano grandi, ora anche il problema della sicurezza si impone in tutta la sua gravità.
Attaccando i luoghi frequentati da molti stranieri di passaggio a Ouagadougou, gli autori degli attentati hanno colpito un punto focale dell’economia di questo Paese senza sbocchi sul mare e senza risorse minerarie importanti. Un Paese che, tuttavia, era riuscito a diventare nel corso degli anni una specie di hub per incontri internazionali di vario tipo: organizzazioni affiliate alle Nazioni Unite così come le più grandi ong internazionali avevano individuato in Ouagadougou una città accogliente, dotata dei servizi necessari, di hotel economici e di gente ospitale.
Grazie a questa speciale atmosfera, le delegazioni straniere si recavano volentieri in Burkina Faso anche per eventi culturali e sportivi come il Fespaco (Festival panafricano del cinema) o il Tour du Faso, la corsa ciclistica più popolare d’Africa.
Tutto ciò è continuato anche durante gli avvenimenti politici che hanno scosso il Paese negli ultimi dodici mesi: l’insurrezione che ha deposto il Presidente Blaise Compaoré, il fallito tentativo di colpo di Stato dell’ottobre 2015 e le elezioni dello scorso dicembre non hanno rappresentato in nessun modo una minaccia per gli stranieri presenti nel Paese.
Gli attentati del 15 gennaio, dunque, rappresentano una “prima” assoluta nella storia del Burkina Faso, qualcosa di inatteso e sconvolgente. Non bisogna, però, dimenticare che il Paese confina con il turbolento Mali ed è coinvolto in diversi modi nei tentativi di risoluzione di questa crisi : in primo luogo, perché accoglie migliaia di profughi che fuggono dalla guerra (e tra di essi anche alcuni capi della ribellione tuareg); inoltre, perché Ouagadougou ha dato ospitalità ai colloqui inter-maliani; infine, perché un contingente del Burkina Faso è parte della forza internazionale di stanza nel nord del Mali, al fine di prevenire una ripresa della guerra e un risveglio dei gruppi islamisti affrontati sul terreno dalla Francia.
D’altro canto, però, bisogna anche ricordare che il precedente regime era stato accusato di collegamenti pericolosi con i ribelli e gli islamisti del Mali, e proprio per questo sarebbe riuscito a negoziare la liberazione di ostaggi occidentali sequestrati da vari gruppi.
È dunque a causa di questo coinvolgimento nel conflitto maliano che il Burkina Faso oggi viene colpito dagli attentati terroristici? Difficile dirlo oggi con sicurezza.
Quel che è certo, invece, è che la società civile locale è alquanto preoccupata: la sensazione è che queste violenze mirino a destabilizzare le nuove autorità, che non hanno alcun contatto con i gruppi ribelli maliani. In una dichiarazione rilasciata all’indomani dell’attentato, la Coalizione contro il caro-vita (Ccvc) ha sostenuto che «questi eventi sono stati progettati per legittimare e rafforzare la presenza di forze straniere, tra cui americani e francesi, presenti sul nostro territorio, con il pretesto della lotta al terrorismo, quando loro stessi non hanno ancora sconfitto il terrorismo che li colpisce mortalmente all’interno dei loro stessi Paesi».
Molti burkinabé sono rimasti colpiti dell’intervento delle forze speciali francesi e americane, durante la liberazione degli ostaggi del 15 di gennaio. E non positivamente. «Abbiamo lottato per la democrazia – sostiene il giornalista Traoré -. E ora, gli jihadisti da una parte, e francesi e gli americani, dall’altra, non vedono questo di buon occhio e cercano di rendere il nostro Paese un nuovo campo di battaglia. Coloro che hanno assassinato Gheddafi nel 2011 non hanno misurato le conseguenze di ciò che stavano facendo. Ma noi non vogliamo essere costretti a subire quelle conseguenze».
«Abbiamo una lunga tradizione di ospitalità – continua il giornalista – e non vogliamo rinunciarvi. Abbiamo fiducia nel nostro esercito e giudicheremo le nuove autorità in base a come affronteranno questo nuovo drammatico problema. Per il momento, la popolazione si stringerà attorno al nuovo governo».
Un quesito, però, si impone: in un Paese, dove la violenza religiosa non esiste – nonostante che la metà della popolazione sia musulmana e l’altra metà cristiana o animista – questi attentati romperanno il delicato equilibrio?
«Per nulla! – stima Mohamed Kadim, insegnante -. In tutte le famiglie, ci sono cristiani e musulmani. I matrimoni interreligiosi sono molti frequenti. E come in ogni momento difficile per il nostro Paese, saremo capaci di trovare le risorse morali per superare la tragedia che ci ha colpiti»
A molti, tuttavia, pare che nulla sarà più come prima. La tranquillità con cui burkinabé e stranieri circolavano per le strade delle città e nelle campagne è messa oggi in discussione. Ci vorranno diversi mesi perché Ouagadougou ritrovi l’“innocenza” perduta e l’atmosfera rilassata che tutti i visitatori le invidiavano.