L’Alto commissario Onu per i diritti umani parla esplicitamente di rischio di una vera e propria guerra civile. E mentre l’Unione Europea prova a sostenere il dialogo, in Burundi si continua a uccidere
«Con gli ultimi eventi sanguinosi del passato fine settimana, il Paese sembra aver fatto un nuovo passo verso una vera e propria guerra civile, mentre le tensioni sono al loro picco a Bujumbura». È quanto ha dichiarato ieri 15 dicembre, l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein. E domani, il Consiglio dei diritti umani dell’Onu dovrebbe votare un progetto di risoluzione a favore del «dispiegamento urgente di una missione d’inchiesta» per fare luce sulle diffuse violazioni dei diritti umani.
Intanto, l’Alto rappresentante della politica estera europea Federica Mogherini ha fatto sapere di essere «in contatto con la direzione dell’Unione africana per facilitare il dialogo in Burundi da parte della regione. Un dialogo che pensiamo di sostenere con aiuti finanziari specifici, ma che deve cominciare quanto prima per porre fine alla violenza».
Sul terreno, però, a imporsi non è tanto il dialogo quanto la repressione e la violenza, che hanno raggiunto livelli mai visti prima. E anche i media locali sono molto pessimisti circa l’intervento dell’UE, nonostante la promessa di 300 mila dollari a sostegno di tale dialogo, che dovrebbe essere organizzato nella capitale ugandese Kampala e per il quale sono stati chiesti 2,5 milioni di dollari.
Lo scorso fine settimana, i ribelli che si oppongono al terzo mandato del Presidente Pierre Nkurunziza, hanno attaccato tutte le caserme della capitale (Muha, Ngagara e ISCAM). Negli scontri sono morte ufficialmente circa 90 persone. Ma secondo esponenti della società civile, sarebbero stati ritrovati dai 150 ai 200 cadaveri, molti vittime di esecuzioni sommarie. Per non parlare dei circa 220 mila profughi che hanno dovuto abbandonare le loro case e si trovano ora in condizioni estremamente precarie in Ruanda, Repubblica Democratica del Congo e Tanzania.
L’escalation di violenza fa temere sempre di più lo spettro di una nuova guerra civile.
Totalmente ignorati, sin qui, tutti gli appelli. Non solo quelli dell’UE, ma anche quelli dell’Unione africana, che si è limitata a esprimere «grande preoccupazione» e a chiedere di avviare un «dialogo davvero inclusivo», nel rispetto degli Accordi di Arusha per la pace e la riconciliazione.
Ma sembra tutto troppo tardi e troppo inadeguato rispetto a una situazione altamente esplosiva, che ormai non riguarda più solo la capitale Bujumbura, ma anche altre località nel Paese, con decine di vittime di esecuzioni extragiudiziarie. Intanto, gruppi non meglio identificati starebbero reclutando nuovi miliziani nei campi profughi del Ruanda, tra cui molti ragazzini, arruolati con la forza.
In parallelo, anche tutte le voci indipendenti o dissidenti del Paese – sia giornalisti che organizzazioni della società civile –, già fortemente colpite lo scorso marzo (in particolare attraverso la chiusura di alcune radio) continuano a essere messe a tacere.
E all’indomani dell’apertura della Porta santa dell’anno giubilare nella cattedrale di Muyinga, il vescovo Joachim Ntahondereye ricorda che «il Giubileo della Misericordia rappresenta una grande opportunità per il Burundi. Senza il perdono e la misericordia non può esserci alcun tipo di riconciliazione e la riconciliazione è quanto di più ha bisogno il nostro Paese».