La drammatica testimonianza di un missionario da Bouar, dove si sono estese violenze e tensioni, che si sono impadronite di nuovo di Bangui dallo scorso fine settimana
Mentre Bangui sprofonda nel caos ed è annunciata per oggi una grande manifestazione che rischia di finire nuovamente nel sangue, anche nel resto del Paese si respira un clima di grande tensione.
«A Bouar, le strade sono impraticabili. È stata assaltata e distrutta la gendarmeria e liberati tutti i prigionieri. In città ci sono stati braccaggi e le ong hanno tutte chiuso. Nessuno sa cosa stia veramente succedendo. Ma c’è molta violenza e tensione».
È la testimonianza di padre Beniamino Gusmeroli, 53 anni, missionario betharramita a Bouar, circa 450 chilometri da Bangui. Padre Beniamino ha vissuto tutte le fasi più drammatiche del conflitto che – dal dicembre 2012, prima, e con il colpo di Stato del marzo 2013, poi – sta facendo letteralmente a pezzi il Centrafrica. Ha visto gli scontri e ha accolto migliaia di rifugiati e, oggi di nuovo, è molto preoccupato per il futuro.
«Aspettiamo il Papa, speriamo proprio che possa venire a portarci una parola di speranza. Ma in questo momento, qui, non c’è un nessuna volontà di ascoltaro. C’è un clima di divisione e di conflitto. Tutti contro tutti. Magari ammantando di religioso quello che è un conflitto di interessi. La religione non c’entra. È solo uno strumento, una copertura. Un elemento identitario. La questione è piuttosto etnico-culturale e, appunto, di interessi. Troppe chiusure, ognuno è ripiegato su se stesso. Non c’è nessuna volontà di dialogo».
Padre Beniamino vive in Centrafrica da oltre vent’anni ed è parroco di Notre Dame de Fatima dal 1998. Anche lui è stato preso di mira dagli assalitori appartenenti alle milizie Seleka nel settembre del 2013. Dopo aver saccheggiato la canonica, i miliziani si sono coperti la fuga, portandosi via il confratello, liberato successivamente. Durante gli scontri più violenti, nella sua parrocchia avevano trovato rifugio più di mille sfollati. Ma quelli che si sono rifugiati presso le altre strutture della Chiesa di Bouar – cattedrale, clarisse, carmelitani, cappuccini… – erano arrivati a superare i diecimila.
In questi ultimi mesi la situazione sembrava essere più tranquilla e anche padre Beniamino aveva ripreso le sue molteplici attività: creazione di comunità di base e cappelle per la catechesi, introduzione di nuovi villaggi nella parrocchia, fino a 150 chilometri di distanza, ristrutturazione e animazione del centro giovanile, sostegno a venti scuole nei villaggi, più le attività della Caritas e quelle della Commissione giustizia e pace. Oltre a un importante progetto agricolo per permettere alla gente di vivere in modo meno precario e più dignitoso.
«Sembrava che si fosse tornati a una certa “normalità” – racconta -. La gente sembrava più serena, aveva potuto tornare a vivere nelle proprie case e a coltivare i propri campi. Ora, di nuovo, la tensione è salita alle stelle. I due gruppi armati – i Seleka da una parte e gli anti-balaka dall’altra, a loro volta divisi in tanti sottogruppi senza alcun coordinamento – sono pronti a battersi in qualsiasi momento».
È quello che sta succedendo a Bangui, dove dallo scorso venerdì 25 settembre sono state uccise tra le venti e le trenta persone e circa 4 mila sono state costrette a lasciare le loro case. La miccia che ha fatto esplodere l’ennesimo incendio è stata l’uccisione di un ragazzo musulmano in uno dei quartieri a prevalenza cristiani della capitale. La vendetta non si è fatta attendere. Il quartiere e la radio islamica sono stati assaliti, ma anche l’abitazione del pastore pastore Nicolas Guerekoyame Gbangou, che fa parte della Piattaforma interreligiosa insieme all’arcivescovo cattolico Dieudonné Nzapalainga e all’imam Oumar Kobine Layama. Lunedì 28 le principali arterie della capitale erano impraticabili, disseminate di barricate: tre persone sono state uccise e sette ferite da colpi dei Caschi blu delle Nazioni Unite.
«C’è un’enorme esasperazione tra la gente e la tensione è fortissima – testimonia padre Baniamino -. Non so cosa posa succedere. Anche perché da parte del governo c’è un immobilismo totale.
Le istituzioni non riescono a fare niente. E anche le elezioni, che dovevano svolgersi entro la fine dell’anno, non sono più certe. La gente chiede che la presidente di transizione Catherine Samba Panza se ne vada. Ma chiede anche che l’Onu vada via e in particolare il contingente francese. L’Onu, a sua volta, chiede alle istituzioni pubbliche di fare la loro parte, ma non c’è nessuna volontà di stare alle condizioni per un funzionamento minimo. D’altro canto, gli stessi Caschi blu con tutto il loro dispiegamento di militari e mezzi appaiono quanto mai inefficaci…».
Anche i leader religiosi, che in questi mesi si sono molto impegnati per favorire il processo di pacificazione e riconciliazione del Paese, sembrano non avere molta presa sulla gente. Specialmente sui miliziani dei gruppi armati, che spadroneggiano nel caos in cui sprofondato il Paese.
«Siamo in attesa di vedere come evolve questa situazione – conclude padre Beniamino -. Ci sentiamo molto vicini alla popolazione e la gente, a sua volta, ci dimostra la sua vicinanza. È questa la nostra principale “protezione”. Sappiamo che se sta per succedere qualcosa ci sarà qualcuno che ci avvisa e che, per quello che può, ci protegge».