È un piccolo ospedale all’equatore. Ma è anche un grande miracolo. Fratel Beppe Gaido, medico del Cottolengo, garantisce un “presidio” di sanità e umanità tra gente povera e senza diritti
Nella foresta vicino a Meru, la linea dell’equatore divide tutto in due: il Nord e il Sud; il giorno e la notte; la stagione secca e quella delle piogge. Poi si entra nel Cottolengo Mission Hospital di Chaaria e tutto è moltiplicato per l’infinità di bisogni e sofferenze, che vi convergono. Un ospedale rurale che è anche un presidio di umanità in una terra bellissima e crudele, dove la vita è appesa al filo della precarietà e dell’incertezza, della buona e della cattiva sorte. O della Provvidenza. Che qui si materializza nella figura di fratel Beppe Gaido, della comunità dei Fratelli di san Giuseppe Cottolengo, medico e anima di questo ospedale, dove migliaia di persone vengono anche da molto lontano per cercare l’unica o l’ultima risposta ai loro mali. Fratel Gaido – torinese, classe 1962 – è a Chaaria da 18 anni, e porta avanti il lavoro dei suoi confratelli che in questo angolo di Kenya avevano aperto nel 1983 – fedeli al carisma del Cottolengo – un centro per disabili gravi fisici e mentali e poi un dispensario. Che un po’ alla volta, grazie alla presenza di fratel Beppe, è diventato un vero e proprio ospedale, con 120 posti letto “ufficiali” (ma spesso più di 150-160 ricoverati), circa 350 visite ambulatoriali al giorno, un reparto maternità sempre colmo di mamme e bambini, una struttura per Hiv-Aids, un centro pre-natale, ambulatorio dentistico e una grande sala operatoria. È questa, in particolare, il “regno” di fratel Beppe, che vi trascorre molte ore al giorno, alternando le operazioni chirurgiche alle visite dei pazienti esterni più gravi.
«Cerchiamo di offrire a tutti i migliori servizi ai prezzi più bassi», dice, mentre si sposta dal suo studio alla sala operatoria, dalla stanzetta per le endoscopie alla sala d’attesa gremita di gente. Da un anno circa, lo coadiuvano una giovane dottoressa keniana e tre clinical officer. Il lavoro, però, sembra, inesauribile, nonostante la presenza di numerose infermiere capaci di intervenire anche in situazioni complesse.
«Tutti devono avere il diritto a essere curati – ribadisce fratel Beppe -. Con un’attenzione particolare per i più poveri. Noi non mandiamo via nessuno, anche se non hanno soldi, come invece succede altrove». Anche in Kenya, infatti – dove quasi metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà e il 40 per cento è ufficialmente senza lavoro – tutta la sanità è a pagamento: sia quella governativa, sia quella privata. A Chaaria, i malati pagano in media un decimo di quello che spenderebbero altrove, trovano sempre le medicine e i servizi sono garantiti 365 giorni all’anno. Per questo, alcuni vengono da molto lontano. Come la giovane mamma che arriva con il suo bimbo malato da Moyale, 600 chilometri più a Nord, al confine con l’Etiopia: l’operazione viene messa in calendario per il giorno dopo, così potrà rientrare il prima possibile. C’è anche una donna musulmana che viene dalla regione di Marsabit, con un problema ginecologico; mentre un’altra, originaria di Wajir, porta con sé una diagnosi di infezione alle vie urinarie fatta da un dispensario locale, ma probabilmente ha in corso una gravidanza extrauterina. Alcuni malati arrivano sin qui anche dalla costa. A Chaaria vengono non solo per i prezzi bassi, ma anche perché sono trattati con umanità e competenza. E molta efficienza. La maggior parte degli esami vengono fatti e refertati in giornata, in modo che le persone non siano obbligate a tornare dopo qualche giorno o a soggiornare sul posto, spendendo soldi che non hanno. Ogni anno l’ospedale registra circa 65 mila visite ambulatoriali, 8 mila ricoveri e più di 3 mila operazioni chirurgiche.
Servizio e dedizione sono le parole chiave di questa presenza che vede, al fianco di fratel Beppe, un altro fratello italiano, Giancarlo Chiesa, economo, e due keniani, Joseph e Dominic, che si occupano dei disabili. Con loro, anche tre suore del Cottolengo, Anna, infermiera italiana, e due keniane, Joan ed Evangeline, impegnate al centro. A una settantina di chilometri, a Turu, le suore gestiscono un’altra casa per ragazze e donne con handicap gravi.
Fratel Beppe corre in sala operatoria. È arrivato un giovane uomo, letteralmente fatto a pezzi con il panga. «Ho dovuto amputare un dito del piede e ricucire pazientemente le dita della mano che erano stata tagliate quasi del tutto. Tutto sommato è andata bene. In altri casi ho dovuto amputare anche interi arti. Succede spesso, specialmente nel periodo delle vacanze, quando la gente beve e litiga di più, quasi sempre per questioni legate alla terra o a infedeltà extraconiugali».
Nella notte, si è dovuto alzare per un cesareo urgente, una donna arrivata in motocicletta su strade di terra rossa particolarmente dissestate, che diventano impossibili durante la stagione delle piogge, quando per percorrere i venti chilometri che separano Chaaria da Meru ci vogliono minimo due ore e mezzo.
Non c’è tempo neppure per dormire. La mattina dopo, si ricomincia con un bambino di sei anni, che ha una brutta frattura scomposta all’omero. Il piccolo non si lamenta né piange, ma ha il terrore negli occhi. Infermiere e anestesista lo rassicurano con tono scherzoso e tenero. Poi, veloci e precisi, lo intubano. Comincia l’operazione. È la 764esima dall’inizio dell’anno. Ne seguiranno altre sei in giornata, più un cesareo urgente non previsto: una bellissima bambina, che viene portata nel reparto maternità, sempre affollato di neonati. «Chaaria riesce a salvare le persone. A cambiare loro la vita. E a generare vita», sintetizza fratel Beppe. Che aggiunge: «Questo ospedale mi ha reso medico a 360 gradi. Per questo sono molto riconoscente a Chaaria». A sua volta, però, questo nosocomio immerso nel verde lussureggiante di questa parte di Kenya ancora molto povera e rurale, è il risultato del suo lavoro tenace, paziente e instancabile: sette giorni su sette, spesso giorno e notte, con rari periodi di stacco. Ci vuole un’energia speciale per portare avanti una simile mole di lavoro e responsabilità. Fratel Beppe la attinge dalla sua fede, che si traduce in preghiera e lavoro, o meglio in preghiera che diventa servizio. E viceversa. Gli ammalati sono al centro della sua vita e della sua spiritualità. Anche e soprattutto quando non riesce a correre alla preghiera comunitaria, perché un’urgenza lo trattiene in ospedale e allora lui offre anche quella a Dio.
«Donarsi senza riserve – riflette fratel Beppe -. è quello che ho cercato e accettato sin dall’inizio, quando ho deciso di diventare fratello del Cottolengo nel 1981: il servizio come quarto voto, “sino al sacrificio della vita”. Una dimensione che, con molta umiltà, cerchiamo di vivere totalmente in questo ospedale. Credo che sia proprio questo il “segreto” di Chaaria, e la ragione per cui sempre più malati vengono sin qui». Una bella soddisfazione, ma anche una grande sfida. Perché rispondere a tutte le richieste e ai tanti bisogni degli ammalati, mantenendo prezzi bassi, non è facile, né dal punto di vista economico che né dal punto di vista del personale. Donatori, gruppi e associazioni contribuiscono a coprire le spese. Mentre diversi volontari consacrano un po’ del loro tempo in questo angolo di Africa equatoriale. «Accettiamo ben volentieri tutti quei medici o infermieri che hanno il desiderio di condividere un po’ della loro vita qui con noi – lancia un appello fratel Beppe -. Le porte dell’ospedale di Chaaria sono aperte a tutti!».
Poi ci sono loro, i “buoni figli”, come li aveva definiti san Giuseppe Cottolengo. Anzi, ci sono soprattutto loro: i disabili fisici e mentali per cui tutto era cominciato qui a Chaaria. Il centro che li ospita era stato pensato per 25. Ora sono 53, dai 15 anni in su. «Ma se ne aprissimo un altro si riempirebbe immediatamente», interviene fratel Giancarlo. L’ultimo arrivato è stato abbandonato in sala d’attesa, in un momento di particolare affollamento. Un altro è stato portato qui dalla comunità, dopo che era stato rinchiuso per tutta la vita in una misera capanna. Di molti non si sa nulla: nascosti nella migliore delle ipotesi, spesso vengono legati, maltrattati o abbandonati, perché rappresentano una maledizione o semplicemente perché sono difficilissimi da gestire. «Basti pensare cosa può significare tenere in una capanna una persona incontinente, senza neppure avere l’acqua – fa notare fratel Giancarlo -. Molti poi sono disabili gravi, in gran parte non autosufficienti». Nel centro che li ospita, tuttavia, l’atmosfera è tutt’altro che angosciante. Suor Joan entra con passo allegro e deciso. Mette un cd di musica congolese, «il loro preferito!». Un ragazzo, che la segue ovunque, ride e si mette a ballare. Così anche gli altri. Alcuni si preparano per la cena. La maggior parte devono essere imboccati. Altri si riposano nelle loro stanze, tutte ben pulite e ordinate. Ci sono anche una scuola speciale e un laboratorio artigianale, per tenerli occupati e stimolare le loro capacità. E poi si organizzano piccole gite o festicciole. «Proprio come in una grande famiglia!», dice suor Joan. «Una grande famiglia – sottolinea fratel Beppe – in cui i sani camminano insieme ai disabili, alla pari, condividendo i talenti che ciascuno ha gratuitamente ricevuto». Questa oggi è Chaaria.