Introdurre l’insegnamento del mandarino in 500 scuole in cinque anni: è il progetto del governo di Pretoria, sponsorizzato dall’ambasciata. Che spera così di migliorare l’immagine della Cina in Africa, ma ha già dovuto affrontare le prime polemiche.
La ‘febbre gialla’ è arrivata anche nei domini degli antichi re Zulu. Non si tratta, in questo caso, di una malattia, ma di una materia scolastica: la lingua cinese, che da quest’anno può essere studiata (come disciplina facoltativa) in 44 scuole del Sudafrica. Tra queste, tre sono appunto nella provincia del KwaZulu-Natal, luogo simbolico della storia sudafricana e delle tradizioni del Paese.
A diffondere i dati sul programma (diffuso soprattutto nelle province di Western Cape e Gauteng, dove si trovano rispettivamente Città del capo e Johannesburg) è stato il governo nazionale, che afferma di volerlo estendere ad un totale di 500 scuole nei prossimi 5 anni. Un successo, questo, in cui hanno giocato un ruolo importante anche i diplomatici di Pechino: a loro si deve la richiesta formale di introdurre nel curriculum scolastico la possibilità di studiare l’idioma mandarino.
È stata proprio l’ambasciata di Cina a Pretoria, inoltre, ad incaricarsi della formazione degli insegnanti: 100 sono stati fatti arrivare appositamente dalla madrepatria alla fine del 2015, mentre altrettanti sudafricani seguiranno corsi nell’ex Celeste Impero ogni anno, fino al 2020. Oltre ai numeri del personale, anche il livello a cui sarà insegnata la materia è destinato a crescere col tempo. Per ora i corsi facoltativi sono destinati agli allievi delle classi che vanno dalla quarta alla decima (cioè tra i 9 e i 15 anni di età). Il governo si è però impegnato ad estenderli nel 2017 all’undicesima classe e nel 2018 alla dodicesima (quella che si conclude con l’equivalente del nostro esame di maturità).
L’attenzione della superpotenza asiatica al Sudafrica (che anche nell’attuale momento di difficoltà resta una delle più importanti economie e lo Stato più prospero del continente) non è una novità. I rapporti tra i due Paesi sono così stretti che il presidente sudafricano Jacob Zuma, due anni fa, disertò addirittura la commemorazione del primo anniversario della morte di Nelson Mandela perché impegnato in una visita ufficiale in Cina. La scelta di puntare sull’insegnamento della lingua, però, spiega anche come l’interesse di Pechino per il continente africano stia cambiando negli anni.
L’Africa, per le élites cinesi, ha smesso da tempo di essere semplicemente un bacino di risorse naturali o una destinazione di investimenti. Una ricerca recente dell’università statunitense Johns Hopkins ha mostrato che i prestiti cinesi destinati all’Africa tra 2000 e 2014 sono stati pari a poco più di 86 miliardi di dollari. Le stime precedenti indicavano invece una cifra oltre 10 volte superiore: mille miliardi. Non si sono ridotte, però, le polemiche in corso da anni sull’impiego di manodopera non locale, su alcuni accordi considerati opachi e sul mancato rispetto dei diritti umani. Introducendo giovani e giovanissimi alla sua cultura, la Cina spera appunto di scrollarsi di dosso questa sua immagine negativa, che le è valsa anche accuse di neo-colonialismo.
In Sudafrica il tentativo non sembra per ora essere completamente riuscito. Quello delle lingue nell’insegnamento scolastico è stati un tema sensibile sia durante che dopo il regime dell’apartheid. In entrambi i casi, è stato criticato lo spazio scarso dato alle numerose lingue locali rispetto a inglese e afrikaans, parlati innanzitutto dai bianchi. Non sorprende dunque che già lo scorso anno il sindacato sudafricano degli insegnanti (Sadtu) abbia bollato l’iniziativa di insegnare il cinese come “la peggior forma di imperialismo”. “Durante il colonialismo alcune persone sono state complici della vendita delle nostre anime, e ora sta accadendo di nuovo”, aveva detto in quell’occasione il segretario del sindacato, Mugwena Maluleke, annunciando una campagna per il boicottaggio. La minaccia, per ora, sembra rientrata, ma la ‘lunga marcia’ del mandarino tra i banchi si annuncia più difficile del previsto.