Nella regione centrale della Nigeria – la “Middle Belt” – sono scoppiati nuovamente violenti conflitti tra pastori e agricoltori. Un intreccio di motivi economici, climatici, religiosi ed etnici difficile da districare
C’è una guerra nella guerra. Dentro un’altra guerra. In un Paese che ufficialmente è in pace.
È uno dei tanti drammatici paradossi della Nigeria, che continua a essere attraversata da nuovi e vecchi conflitti a vari livelli. Conflitti di potere e di denaro, per la terra e per le risorse, per la religione e per l’etnia, per il clima e per l’acqua. Spesso gli uni legati agli altri. E quasi sempre riconducibili a una mancanza di buon governo, a una corruzione dilagante, a profonde diseguaglianze e a congiunture economiche globali, che fanno sì che, con il crollo del prezzo del greggio – solo per fare un esempio, – siano precipitati anche interi Paesi e popoli. Proprio come la Nigeria.
E allora anche nella recente crisi che sta interessando la regione del Southern Kaduna, nella fascia centrale del Paese – la cosiddetta Middle Belt – c’è un po’ tutto questo. Ci sono le ataviche rivalità tra pastori e agricoltori, ma ci sono anche le nuove dinamiche legate alla diffusione di armi sempre più numerose e sofisticate; ci sono le differenti appartenenze religiose – i pastori fulani sono musulmani mentre gli agricoltori sono quasi tutti cristiani -, ma ci sono anche nuove emergenze legate al progressivo inaridimento del Nord dovuto ai cambiamenti climatici. A tutto ciò si aggiunge l’inadeguatezza delle autorità locali e federali ad affrontare la crisi, ma anche il dirottamento di ingenti risorse sulla lotta al gruppo terroristico Boko Haram che, di conseguenza, sono state sottratte ad altre attività e priorità. Per non parlare, infine, delle ruberie colossali che si nutrono anche di queste crisi. Solo nel contrasto a Boko Haram sarebbero spariti 7 miliardi di dollari.
Risultato, la Nigeria è un Paese sempre più in bilico e la sua popolazione sempre più povera. Le fasce più basse vivono in condizioni di vera e propria miseria e un numero crescente di giovani cerca una via di fuga e di sopravvivenza all’estero, finendo spesso nelle mani di trafficanti e sfruttatori. Nel 2016, ne sono sbarcati solo in Italia 37 mila, tra cui 11 mila donne.
Tutto questo si è tradotto anche nell’ennesimo acuto focolaio di violenza, che negli ultimi mesi si è concentrato soprattutto nella regione centro-settentrionale del Southern Kaduna. «Da settembre a oggi – denuncia il vescovo di Kafanchan, mons. Joseph Bagobiri – sono stati dati alle fiamme 53 villaggi, uccise più di 800 persone, distrutte circa 1.500 case e 16 chiese».
I responsabili sarebbero i Fulani Herdsmen Terrorist Groups, pastori nomadi che hanno alzato il livello dello scontro in una zona che storicamente si trova su una delle più sensibili linee di frattura che attraversano l’Africa. Questa regione, infatti, si colloca al confine tra il Nord, in gran parte islamico, e il Sud, a maggioranza cristiano, una zona in cui si incontrano – e spesso si scontrano – popoli con culture e tradizioni diverse, che si contendono terre e acqua.
La connotazione etnico-religiosa di questi scontri è la più discussa e controversa. Mons. Ignatius Kaigama, arcivescovo di Jos (capitale del Plateau) e presidente della Conferenza episcopale nigeriana, insiste sul fatto che «non è una questione religiosa: il quadro generale è molto più complesso e non aiuta ridurlo in termini di lotta tra cristiani e musulmani».
Altri, invece, come il segretario della branca di Kaduna della Christian Association of Nigeria (Can), il reverendo Sunday Ibrahim, non hanno dubbi: «Come chiamare i continui omicidi e le distruzioni delle comunità cristiane commessi da uomini armati che lanciano slogan islamici? La violenza in Southern Kaduna è religiosa. Gli islamisti vogliono distruggere il cristianesimo in questa regione e occupare la terra».
«È più facile insistere sull’elemento religioso – ribadisce l’arcivescovo di Jos – perché rappresenta un forte marchio identitario. Ma questo non fa che nascondere i veri problemi che sono di ordine politico, economico e legati al possesso della terra».
La sua diocesi si trova in una delle regioni più straziate sia per gli attacchi di Boko Haram che per gli scontri tra comunità cristiane e musulmane. Dopo una serie impressionante di violenze e attentati, che hanno provocato migliaia di morti dal 2001 in poi, la città è stata disseminata di numerosi posti di blocco. Che tuttavia non hanno potuto impedire gli scontri nei villaggi limitrofi, dove negli scorsi anni gruppi di pastori fulani musulmani hanno attaccato gli agricoltori birom cristiani, provocando morti e sfollati.
Negli ultimi mesi, il cuore di questo conflitto si è spostato un po’ più a Nord e ha preso nuove connotazioni. Innanzitutto è emersa in maniera ancora più devastante la capacità offensiva dei Fulani Herdsmen Terrorist Groups; i quali, secondo il Forum dei governatori del Nord della Nigeria, sarebbero originari del Mali e del Senegal. Tuttavia, questi stessi governatori (in parte anch’essi fulani), sono a loro volta accusati di proteggere gli interessi dei pastori a discapito del resto della popolazione. Quanto ai pastori fulani, infine, – che non sono evidentemente tutti terroristi – si stanno spingendo sempre di più verso Sud a causa della progressiva desertificazione della fascia saheliana (non solo della Nigeria, ma anche dei Paesi limitrofi). E nei loro spostamenti con enormi mandrie provocano spesso la distruzione di vaste zone coltivate quando non veri e propri scontri con morti e feriti. Al punto che alcuni governatori del Sud-est della Nigeria sono arrivati a prendere provvedimenti per vietare ai pastori di entrare nei loro Stati. Questo è avvenuto soprattutto dopo la strage di Nimbo, il 25 aprile 2016, nello Stato di Enugu, Sud-est della Nigeria, dove i pastori fulani avevano attaccato e raso al suolo l’intero villaggio, facendo decine di vittime, bruciando l’abitazione del pastore protestante e danneggiando quella del parroco cattolico. «Mai nella storia della nostra comunità abbiamo visto una cosa simile – aveva affermato durante i funerali mons. Godfrey Onah, vescovo di Nsukka -. Siamo grati a Dio, che qualcuno tra noi è ancora vivo oggi per seppellire e onorare i nostri morti». «Sembra – aveva aggiunto il vescovo – che elementi criminali stiano usando il movimento dei pastori nomadi come copertura per attaccare diversi villaggi e perpetrare crimini esecrabili». Negli stessi giorni alcuni fulani avrebbero attaccato l’automobile del cardinale John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, nello Stato meridionale di Edo, in un’azione poco chiara, in bilico tra il banditismo e il terrorismo.
Comunque sia, sostiene mons. Kaigama, «non abbiamo visto lo stesso zelo nel combattere i pastori criminali che attaccano gli agricoltori, come quello dimostrato nella lotta contro Boko Haram. Siamo molto preoccupati per questa situazione di crisi che può avere terribili conseguenze». «L’allevamento, come l’agricoltura – riflette l’arcivescovo – è un aspetto molto importante della nostra economia, specialmente di fronte al crollo delle entrate petrolifere. Ma l’allevamento di bovini e di altri animali non dove sfociare in continui conflitti, occupazioni forzate di terre o morti senza senso».
Anche i vescovi cattolici della provincia ecclesiastica di Kaduna si sono espressi con preoccupazione su questa escalation di violenza: «Guardando avanti – scrivono – dobbiamo notare che il dibattito su mandriani e pastori è un dibattito sul futuro della nostra stessa sopravvivenza umana, sull’ambiente e sul nostro Paese. Oggi intere comunità sono state distrutte e la rabbia nel Paese è palpabile. Siamo convinti che l’unica via da seguire da parte del governo sia quella di mettere fine agli spostamenti dei pastori e dei loro animali, esplorando l’opzione di creare dei ranch. Noi crediamo che questo possa avere un senso sia sul piano economico che umano».
È d’accordo anche l’arcivescovo di Kaduna, la cui diocesi è stata particolarmente segnata dalle violenze: «I continui scontri tra agricoltori e pastori – afferma mons. Mathew Ndagoso – sono una chiara indicazione che il vecchio metodo di allevamento attraverso le cosiddette “vie del bestiame” e le riserve di pascolo è obsoleto e insostenibile. Di qui la necessità urgente che i proprietari terrieri affittino le loro terre ai pastori per creare degli allevamenti»
Più in generale, però – fanno notare i vescovi della Provincia ecclesiastica di Ibadan -, nel Paese c’è «un diffuso senso di disperazione. Questo provoca sentimenti perversi che si manifestano nella proliferazione di scontri violenti, appelli alla divisione della Nigeria oltre che nella criminalità dilagante. È urgente e necessario ricostruire la fiducia dei nigeriani nella loro nazione». Per questo chiedono al presidente Muhammadu Buhari di rilanciare la campagna anti-corruzione che «sta perdendo vigore» e di difendere i cittadini dalle violenze soprattutto dei pastori fulani, cercando inoltre di migliorare le condizioni economiche di tutti. Un presupposto fondamentale per mettere solide fondamenta anche alla pace.