A Nabeul, la capitale tunisina della ceramica, un’importante tradizione è a rischio. Un progetto di produzione secondo i criteri del commercio equo, creato da una realtà italiana, promuove un’alternativa possibile
La chiamano “la capitale tunisina della ceramica”. E in effetti Nabeul, pittoresco centro che dalla penisola del Cap Bon si affaccia sul Mediterraneo, ha una lunga e gloriosa tradizione nel settore, come testimoniano, oltre allo sgargiante monumento coperto di maioliche che sorge in piazza – un’enorme coppa di arance -, le botteghe del nucleo storico traboccanti di colorato vasellame, tajine e piatti decorati a mano.
Negli ultimi anni, tuttavia, quest’arte locale sviluppata per tanto tempo con maestria ha conosciuto una crisi importante: i prodotti provenienti dal Sud-est asiatico, competitivi a livello di prezzo ma sempre più anche di qualità, hanno inferto un duro colpo alle ceramiche di Nabeul, sottraendo loro quote notevoli del mercato internazionale. La scelta di molti artigiani tunisini – abbassare gli standard della produzione per far fronte alla concorrenza cinese – non ha pagato, mentre il Paese subiva i contraccolpi della crisi economica globale e poi del caos seguito alla “rivoluzione dei gelsomini”.
La sollevazione che nel 2011 portò alla cacciata del dittatore Ben Ali e che diede avvio alle cosiddette “primavere arabe”, sebbene qui sia evoluta in un sistema che ha mantenuto la democrazia includendovi un certo pluralismo politico, non è però riuscita a far fronte alle questioni più gravi che continuano ad attanagliare il Paese. A cominciare dall’altissimo tasso di disoccupazione giovanile. Un dramma che va a braccetto con l’avanzata strisciante del fondamentalismo a matrice islamica: da qui è partito il numero più alto di miliziani stranieri andati ad ingrossare le file dell’Isis. E poi c’è chi decide di provare l’avventura in mare, con il miraggio dell’Europa: un numero in notevole crescita nell’ultimo anno. «Insomma, era un contesto dove ci sembrava importante esserci»: a sintetizzarlo è Cristiano Calvi, della cooperativa genovese La Bottega solidale, forte di trent’anni di esperienza nella promozione del commercio equo e solidale, e con alle spalle un’esperienza d’importazione di artigianato dal Ruanda. «Crediamo che, nel nostro piccolo, anche noi abbiamo la responsabilità di proporre un’alternativa. E abbiamo deciso di provare a creare la prima realtà di artigianato solidale della Tunisia».
È nata così, anche con la collaborazione delle Università di Genova, Venezia e Firenze e di Designer senza frontiere, l’esperienza di Tunisia Fair Design, un progetto a sostegno proprio degli artigiani della ceramica tunisina, che mira a garantire loro compensi equi e contratti regolari. «Quattro anni fa andammo alla ricerca di un possibile partner in loco», racconta Calvi. «La situazione generale era critica: nel settore il lavoro nero era la norma e i laboratori non rispettavano gli standard minimi di qualità. Poi ci imbattemmo in una realtà interessante, Le souq ceramique, una piccola azienda gestita da due proprietari, uno tunisino e l’altro statunitense, entrambi portati a garantire ai dipendenti condizioni di lavoro dignitose, con qualche attenzione alla sicurezza, e contratti in regola. Ci è sembrato il giusto punto di partenza». Non fu difficile ottenere da quel laboratorio ricco di veri artisti, uomini e donne, tra cui signore coperte dal velo islamico e ragazze in jeans, la disponibilità ad aderire ai criteri del commercio equo con la prospettiva di accedere ai canali europei del mercato solidale. La prima vendita in Italia risale al 2015: le ciotole dalle tipiche decorazioni mediterranee e le coloratissime tajine, le tradizionali pentole per cucinare l’omonima pietanza a base di carne in umido, cominciarono a comparire sugli scaffali dei negozi del circuito fair trade. «Le botteghe ci diedero fiducia e così avviammo un percorso di formazione con i nostri nuovi partner, per identificare gli ambiti di miglioramento».
Il primo passo fu l’organizzazione di un’assemblea per l’elezione di due rappresentanti dei lavoratori. Poi, dall’anno scorso, la definizione di un obiettivo davvero ambizioso: fare sì che Le souq ceramique, pur rappresentando un’azienda privata, potesse diventare membro della World Fair Trade Organization (Wfto), l’organizzazione mondiale del commercio equo, che riunisce principalmente associazioni di piccoli produttori, realtà del non profit, cooperative. Cristiano Calvi riassume un iter impegnativo di adeguamento agli standard richiesti: «Abbiamo presentato i nostri collaboratori tunisini, li abbiamo sostenuti, aiutati nella compilazione dei primi questionari e affiancati nella formazione: ora, se tutto andrà come speriamo, entro la fine dell’anno il Souq sarà riconosciuto ufficialmente come socio dell’organizzazione». Il primo in assoluto per il piccolo Paese nordafricano.
Ma perché puntare sul fair trade, quando buona parte del mercato dell’azienda di Nabeul resta nei circuiti tradizionali? «Non solo le esigenze di qualità legate al commercio equo hanno portato un miglioramento tangibile più allargato, ad esempio recentemente si è passati alla produzione in grès, che è più resistente, ma permettono di continuare a valorizzare una competenza tradizionale che è preziosissima, e che rischia di perdersi».
La speranza è che l’esperimento di Tunisia Fair Design possa ispirare altri laboratori del distretto della ceramica di Nabeul. Intanto, Le souq ceramique ha allargato le sue esportazioni non solo all’Italia ma a Svizzera, Austria, Olanda e Belgio. Portando un tocco di colore e un’arte antica, che sa di sole e di mare, in tante case del Vecchio continente.