Sono sempre di più i movimenti che in tutto il continente protestano contro immobilismo politico e disuguaglianze sociali: a guidarli, attivisti come il rapper angolano Luaty Beirao. Il loro sguardo che ha l’ambizione di mostrare un’alternativa a scenari apparentemente immutabili piacerebbe senz’altro a Papa Francesco.
«Come cambierebbe il mio concetto di libertà se mi gettassero in prigione? – si chiedeva nel 2012 il rapper angolano Luaty Beirao parlando con un giornalista – Solo una cosa è sicura: continuerei ad andare dietro a quell’utopia». Quattro anni dopo, entrambe le parti di quella previsione inconsapevole sembrano essersi avverate: il trentatreenne Beirao è il più noto dei quattordici attivisti condannati, lo scorso 28 marzo, a diversi anni di carcere con l’accusa di aver complottato per rovesciare il presidente, José Eduardo Dos Santos, al potere dal 1979. Ma il musicista non si è arreso e ha trasformato quel processo, definito farsesco dalle più importanti organizzazioni internazionali per i diritti umani, una tribuna per denunciare la mancanza di libertà nel suo Paese.
Lo stesso, pur con mezzi diversi, stanno facendo molti altri giovani artisti e intellettuali in tutta l’Africa. Alcuni, proprio come Beirao, hanno cominciato il loro percorso con la musica di protesta, mettendola poi al servizio di una causa più grande: nomi celebri dell’hip hop locale, Keur Gui e Smockey hanno dato vita ad enormi proteste di piazza rispettivamente in Senegal e Burkina Faso. Altri sono giornalisti come Fadel Barro, protagonista del movimento senegalese Y’en a marre (che significa «ne abbiamo abbastanza» in francese) o blogger come Fred Bauma, animatore del collettivo Filimbi (cioè «fischietto») nella Repubblica Democratica del Congo. In comune, questi giovani hanno l’ambizione di mobilitare i loro coetanei e di mostrare che persino di fronte a scenari che sembrano immutabili, esiste un’alternativa.
Perché sono proprio i giovani che più di altri sentono il peso di un sistema immobile: in Africa rappresentano il 20% della popolazione, ma anche ben il 60% dei disoccupati. Non a caso quelle a sfondo politico sono solo le rivendicazioni più appariscenti, non sostanziali, dei nuovi movimenti africani. Il nome di Y’en a marre, ad esempio, è legato soprattutto alle proteste che culminarono con le elezioni del 2012 e la sconfitta del presidente senegalese in carica, Abdoulaye Wade, ma il movimento nasce come razione alle disuguaglianze sociali ed economiche evidenti a Dakar.
Questioni economiche, servizi di base, lavoro: guardando alle richieste dei giovani africani tornano in mente le tre “T” (tierra, techo, trabajo) evocate da Papa Francesco lo scorso luglio in Bolivia, parlando ai movimenti popolari. A cui il pontefice affidò anche una sorta di mandato più generale, ricordando: «Mi piace molto l’immagine del processo, in cui la passione per il seminare, per l’irrigare con calma ciò che gli altri vedranno fiorire sostituisce l’ansia di occupare tutti gli spazi di potere disponibili e vedere risultati immediati». Una prospettiva su cui concordano anche attivisti per altri versi molto lontani dal vescovo di Roma, come il rapper ‘Djily Baghdad’, protagonista della mobilitazione senegalese; ancora poche settimane fa giudicava «impossibile valutare ora quello che stiamo facendo», perché, spiegava in un’intervista «stiamo agendo sul lungo periodo, stiamo cercando di cambiare una mentalità».