Resse l’arcidiocesi di Durban dal 1951 al 1992, opponendosi all’apartheid e ispirando anche il Nobel Desmond Tutu. Visse da protagonista il Concilio Vaticano II. Il Sudafrica in questi giorni lo ricorda nel centenario della nascita
Lo scrittore Alan Paton lo soprannominò “il guardiano della luce” (alludendo anche alla professione del padre, che lavorava in un faro); il premio Nobel per la pace Desmond Tutu lo indicò come suo ispiratore; fu un protagonista del Vaticano II. Ma Denis Hurley, arcivescovo di Durban dal 1951 al 1992 è meno conosciuto fuori dal Sudafrica, suo Paese d’origine, di quanto meriterebbe.
“L’eredità di Hurley è l’assistenza ai poveri, il lavoro con persone di diverse fedi e la lotta contro l’ingiustizia: come Oscar Romero in Salvador fu la voce dei senza voce”, sintetizza Raymond Perrier, che a Durban dirige l’Istituto Denis Hurley. L’istituzione cattolica, in questi giorni, sta celebrando il centenario della nascita del prelato (avvenuta il 9 novembre 1915, mentre la data della morte è il 14 febbraio 2004). Come per Romero, prosegue Perrier, l’avvicinamento di Hurley al suo popolo fu graduale. “Negli anni ’20-’30 – ricorda – il futuro arcivescovo abitava in una comunità bianca segregazionista e crebbe probabilmente con gli stessi pregiudizi; ma durante i suoi studi a Roma si trovò davanti alla realtà del Fascismo e si dedicò allo studio della Dottrina sociale cattolica: tornato in Sudafrica iniziò ad entrare in contato con la gente comune, scoprendo la realtà di ingiustizia quotidiana che doveva sopportare. Capì quindi che la Chiesa non poteva tacere o limitarsi a qualche pia predica”.
Nel frattempo, con l’arrivo al potere del Partito Nazionalista sudafricano nel 1948, la segregazione (apartheid) tra bianchi e neri era diventata ufficiale: Hurley svolse un ruolo fondamentale nella stesura della prima lettera pastorale con cui i vescovi definirono questa politica “intrinsecamente malvagia” e “una blasfemia”, nel 1951. Hurley, ricorda ancora Perrier “fece anche in modo che le scuole cattoliche restassero un esempio di integrazione, accettando per questo di perdere i fondi governativi e si impegnò in prima persona nelle proteste presentandosi anche da solo, con cartelli, davanti al municipio di Durban”.
Questo spirito uscì rafforzato dal Concilio, a cui partecipò come uno dei vescovi più giovani (fu consacrato nel 1947, a 32 anni non ancora compiuti) e di cui divenne una figura rilevante. “Anche se bianco, era uno dei relativamente pochi prelati nati e cresciuti in Africa – spiega il direttore dell’istituto a lui intitolato – e comprese che il ministero episcopale doveva misurarsi con i problemi del suo tempo, ‘essere Chiesa nel mondo moderno’, secondo le parole della Gaudium et Spes: il tratto comune tra il suo ruolo al Vaticano II e il suo attivismo fu proprio il modo di vivere il sacerdozio”.
Questa è una delle ragioni per cui la figura di Hurley resta estremamente attuale anche nel contesto profondamente mutato del Sudafrica (e del mondo) di oggi. “La Chiesa di Hurley era una Chiesa per i poveri, per usare le parole di Papa Francesco: un impegno che oggi possiamo portare avanti assistendo i senza casa e rifugiati, curando i malati, trattando chi è ai margini della società con dignità e rispetto”, conclude Perrier.