Da agosto 2018 la Repubblica democratica del Congo è colpita da una nuova epidemia di ebola, considerata la più grande di sempre dopo quella che colpì l’Africa occidentale tra il 2014 e il 2016. Di qualche settimana fa la notizia che il virus si è diffuso anche in Uganda.
Nel 2016 si era festeggiato per la scomparsa degli ultimi focolai di Ebola in Sierra Leone. Oggi però il virus è ricomparso in Repubblica democratica del Congo, si è parzialmente diffuso in Uganda e, nonostante si stia progredendo con le cure, l’epidemia rischia di assumere le proporzioni di quella del 2014-16 in Africa occidentale.
Da quasi un anno i focolai del virus in RdC continuano ad aumentare senza tregua e concentrandosi sui confini rischiano di infettare anche altri Paesi come già avvenuto per l’Uganda, nonostante la situazione in questo Paese sia stata per ora posta sotto controllo. L’11 giugno infatti l’Organizzazione mondiale della sanità aveva comunicato che il virus aveva valicato il confine. Il contagio è avvenuto tramite un unico nucleo familiare: un bambino di 5 anni e la nonna di 50 anni sono già deceduti, mentre il fratellino di 3 anni infetto è stato messo in isolamento. L’Oms aveva anche considerato di dichiarare l’epidemia “un’emergenza sanitaria di rilievo internazionale”, ma è una misura questa che, prevedendo restrizioni a livello economico e turistico, causerebbe anche una serie di danni economici.
Da agosto 2018, però, la situazione in RdC è progressivamente peggiorata: secondo Msf i morti sono arrivati a 1500 su 2100 contagi, con un tasso di mortalità del 67%. Nel 2014 quello che sembrava essere un problema locale dalla portata ridotta si è poi trasformato in una crisi umanitaria internazionale senza precedenti. E questo è proprio quello che rischia di succedere oggi in Repubblica democratica del Congo.
Arginare il contagio infatti è la maggiore difficoltà riscontrata da chi dovrebbe contenere l’epidemia. Le province del Nord Kivu e Ituri dove si sono finora concentrati i contagi, sono delle regioni politicamente instabili percorse da conflitti e da conseguenti spostamenti di popolazione, mentre a livello culturale è forte la reticenza delle persone a farsi vaccinare.
Dopo la registrazione dei due decessi in Uganda, gli operatori hanno ammesso le diffiicoltà nel tracciare i casi di contagio a causa delle migrazioni lungo i confini. In particolare, secondo il The Guardian, gli attacchi delle milizie dei Mai Mai non possono che causare l’emergere di sempre nuovi casi. I Mai Mai, concentrati nelle aree rurali intorno alla città di Butembo dimostrano ostilità non solo nei confronti del governo ma anche verso tutti gli outsider.
Ci sono persino stati attacchi al personale medico; in particolare ad aprile un gruppo di persone aveva sparato in un centro di trattamento per malati uccidendo due persone e ferendo il direttore. Anche un centro ospedaliero di Medici senza frontiere a Katwa (a 10 km da Butembo) è stato attaccato ripetutamente, rendendo non solo difficile il lavoro degli operatori, ma anche più probabile il contagio. Sempre a Butembo invece, da parte di oppositori politici è stata diffusa la narrativa secondo cui il governo abbia volontariamente usato il virus per sterminare i nande, il più grande gruppo etnico della regione.
Come se tutto ciò non bastasse, a dicembre, per cercare di evitare il contagio, il governo aveva deciso di sospendere le elezioni a Beni e Butembo chiudendo i seggi elettorali. La mossa non ha fatto altro che rafforzare le teorie complottiste e alimentare la diffidenza della popolazione nei confronti delle cure, portandola addirittura a credere che il virus non esista.
Per tutte queste ragioni, secondo una dichiarazione di Msf sempre al giornale The Guardian, “l’epidemia potrebbe proseguire per mesi”.
Al momento l’epidemia maggiore resta quella del 2014-16 in Africa occidentale. Nel febbraio 2014 dalla Guinea si diffuse il contagio più grande mai registrato sia per numero di focolai che per numero di persone colpite e decessi, arrivando a sfiorare gli 11 mila morti. Oltrepassando i confini, il virus si è in pochi mesi diffuso in Liberia, Sierra Leone e Nigeria, toccando poi altri Paesi africani e parzialmente anche altri continenti.
Con un periodo di incubazione che può variare dai 2 fino ai 21 giorni, i sintomi sono simili ad altre malattie diffuse in Africa occidentale come tifo, malaria e meningite. Inizialmente si presenta con una febbre improvvisa, mal di testa, dolore muscolare, spossatezza e mal di gola. Poi possono comparire nausea, vomito diarrea, anoressia, eritemi, mentre emorragie cutanee e viscerali si verificano in più della metà dei malati. Con il decorso della malattia anche le funzioni epatiche e renali possono venire compromesse.
Anche se l’origine dell’epidemia non è nota, si sospetta che i primi casi siano stati esposti a cacciagione locale infetta. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’infezione è avvenuta dopo il contatto umano con scimpanzé, gorilla, scimmie, antilopi e porcospini, trovati malati o morti, e pipistrelli della frutta. Se il virus si trasmette agli uomini dagli animali selvatici, da uomo a uomo il contagio avviene entrando in contatto con sangue, secrezioni, organi o altri fluidi biologici di soggetti infetti, sia vivi che morti. In questo caso la partecipazione a riti di sepoltura ha giocato un ruolo cruciale nell’epidemia del 2014-2016 e allo stesso tempo il contagio tra familiari e conviventi è più frequente proprio per la facilità dei contatti fisici.
Sebbene non esista ancora un trattamento specifico per la febbre emorragica causata da Ebola, secondo Medici senza frontiere, spesso una terapia di supporto composta da antibiotici e multivitaminici può aiutare il paziente a sviluppare una risposta immunitaria sufficiente per combattere il virus.
Nel corso del 2015 venne poi sperimentato un vaccino che si è dimostrato efficace nei trials avvenuti in Guinea, ma che fino all’anno scorso non aveva ancora ricevuto l’autorizzazione a essere utilizzato sui pazienti. Di conseguenza per lungo tempo per fermare il contagio ci si è basati sulla diffusione di norme igienico-sanitarie e sull’isolamento di pazienti infetti e dei contatti ad alto rischio.
L’identificazione del virus avvenne in realtà già nel 1976 in Sudan e in Repubblica democratica del Congo. Il nome Ebola infatti deriva dal nome della valle dove perse la vita una suora che aveva contratto il virus a Kinshasa. Fu il microbiologo Peter Piot, analizzando il sangue infetto della suora in un laboratorio belga, a capire che si era di fronte a un nuovo virus, benché i sintomi fossero appunto simili ad altre malattie già note in Africa.
Dal 1976 al 2014 il numero di contagi si è dimostrato estremamente ridotto e concentrato in alcuni Paesi: Repubblica democratica del Congo, Sudan, Gabon e Congo.