Tre religiose comboniane, costrette a fuggire dal Sud Sudan, hanno raggiunto la loro gente nel campo profughi di Palorinya. Povere e precarie, sono segni preziosi di vicinanza e conforto
La luce di una torcia, nel buio compatto della notte, indica un punto che sembra perso nel nulla. «Welcome! Benvenuti!», ci viene incontro sorridente suor Lorena Ortiz, 50 anni, costaricana. «Ben arrivati a Palorinya!».
Il buio qui dilata tutte le cose, il tempo e le distanze. Bisogna aspettare la luce del sole per rendersi conto che Palorinya è proprio in mezzo al niente. O quasi.
Siamo a una trentina di chilometri dal Sud Sudan e poco distanti dal maestoso Nilo, che dal lago Vittoria risale sinuoso verso nord. La terra qui è più secca e sabbiosa. E appena ci si allontana dal grande fiume la vegetazione si fa cespugliosa e rada. Il sole, nella stagione secca, è una lama di luce e calore che colpisce impietosa.
Nel piccolo giardino delle comboniane c’è anche qualche fiore rosa. «Avevo bisogno di un po’ di colore per spezzare la monotonia di questa distesa infinita di tonalità ocra», dice suor Lorena. Una piccola attenzione, un segno di cura e di bellezza. Come lo sono queste tre suore comboniane, che con grazia e determinazione, con dolcezza e tenacia hanno deciso di seguire la loro gente: profughe tra gli altri profughi.
Sono scappate pure loro nel febbraio del 2017, dalla missione di Lomin, nella zona di Kajo Keji, quando proprio non c’era più nulla da fare. «L’ultima domenica che abbiamo celebrato la Messa con i padri – ricorda suor Lorena – eravamo una decina in chiesa. Erano scappati tutti. Il giorno dopo abbiamo caricato la macchina con le nostre poche cose personali e siamo venute nella missione comboniana più vicina, in Nord Uganda. Per poi trasferirci qui, nei settlement, dove cerchiamo di offrire un servizio pastorale alla nostra gente e accompagnare questa esperienza di esilio, che è esilio anche per noi».
Nel giro di pochi mesi, si sono costruite una casetta: piccola, essenziale, ma dignitosa e accogliente. Hanno creato un piccolo orto, anche se l’acqua è un grosso problema. Finita quella piovana raccolta nei tank sul tetto, occorre andare al pozzo, come la gente del posto. Ogni goccia è preziosa. E anche loro lo sono. La presenza di queste tre religiose garantisce un presidio di umanità in un contesto di vite perdute, che sembrano contare meno di niente.
Con suor Lorena, ci sono suor Maria Do Carmo Carvalhal e suor Dorinda Lopes, entrambe portoghesi di 67 anni. Quest’ultima, seduta all’ombra di un grande albero, raduna un gruppo di bambini e donne, cercando di offrire anche qui – dopo una vita trascorsa in Egitto, Sud Sudan e Montagne Nuba – vicinanza e accompagnamento spirituale. Che significa spesso raccogliere anche tante e profonde sofferenze.
Suor Maria, il sorriso dolce, si sposta continuamente da un settlement all’altro. Ci sono le donne della sua parrocchia. In qualche modo bisogna andare avanti anche qui. «La prima volta che sono andata al campo – ricorda – una di loro mi è corsa incontro e mi ha abbracciata forte: “Sister, mi ha detto, facciamo anche qui le cose che facevamo a Lomin”». E nonostante la precarietà, la miseria e la dispersione, Maria l’ha presa in parola e, nel giro di pochi mesi, ha rimesso in piedi nove gruppi di micro-credito, con cinque donne ciascuno, mentre altri tre sono in attesa di partire. «Con i pochi soldi che ho dato – racconta – sono riuscite a creare delle piccole attività commerciali che permettono loro di sopravvivere. Donne che aiutano altre donne».
Suor Lorena, invece, si occupa di istruzione: ha trasferito nei settlement le borse di studio per ragazze che le arrivano da una fondazione creata in memoria di un sud sudanese, Dunstan Wai, originario proprio di Kajo Keji, ed emigrato per studiare prima a Oxford e poi ad Harvard. Era convinto che l’istruzione fosse la chiave per il riscatto. Forse non avrebbe mai immaginato che il suo impegno per promuovere lo studio sarebbe arrivato sino in questo angolo di mondo, tra il suo popolo in fuga. «Queste borse di studio – spiega suor Lorena – ci permettono di offrire a più di un centinaio di ragazze la possibilità di frequentare la scuola in un contesto estremamente difficile, dove molte rischiano di abbandonare. La mancanza di tutto, le pressioni della famiglia, i matrimoni precoci… Sono sopraffatte da così tanti problemi che non sempre riescono a concentrarsi nello studio».
Poi però suor Lorena ricorda una ragazza che lo scorso anno è riuscita a laurearsi a Kampala e le molte altre che oggi sono diventare paramedici, infermiere, maestre… Un segno di speranza che in questi campi sembra quasi impossibile.
Nei settlement di Palorinya – con più di 180 mila profughi – pare assente ogni prospettiva di futuro. Qui l’unica dimensione è quella di un presente di desolazione. Più che altrove – per lo stato di abbandono, la mancanza di tutto, la lontananza da tutti – in questa savana, battuta dal sole e del vento, sembra quasi impossibile riuscire a sopravvivere. A Iboa ci sono quasi seimila capi-famiglia, quasi tutte donne, e una marea di bambini. Ci sono anziane malate, donne con infezioni ginecologiche, una ragazza senza una gamba dopo essere stata colpita da un proiettile, un’altra con il piede devastato da una grave ustione, un bambino con un’otite avanzata… C’è una nonna, che forse avrà cinquant’anni ma sembra antica come il mondo; fatica a sollevarsi perché ha dolore al petto. E c’è un neonato che, nonostante tutto, si abbandona placido al seno della mamma.
Colpisce questa umanità dolente. Ma colpisce soprattutto una mancanza evidente. In questa periferia remota, i grandi mezzi dell’umanitario fanno solo fugaci apparizioni. Sembra che questo popolo alla deriva non interessi a nessuno.
Poi compaiono queste tre suore che, di fronte all’immensità di questa massa di profughi, sembrano poco più di niente. Sono qui, in mezzo alla loro gente, a fare un lavoro umile e straordinario. Sono anche loro povere tra i poveri, precarie ma tenaci, lavoratrici infaticabili e sorelle gentili. Non fanno miracoli, ma ci sono. Almeno loro.