Il 9 ottobre il governo etiope ha dichiarato lo stato d’emergenza dopo una nuova ondata di rivolte. In mezzo all’incertezza è stallo anche della cooperazione e dell’assistenza sanitaria alla popolazione.
«Ci sono militari dappertutto e la gente non si muove da casa. Abbiamo perciò dovuto interrompere le attività di assistenza sanitaria sul terreno, mentre proseguiamo il nostro lavoro in ospedale». A parlare è Fabio Manenti, medico chirurgo e responsabile dei progetti in Etiopia di Medici con l’Africa – Cuamm. L’organizzazione con sede a Padova è presente dal 1980 in Etiopia, dove ha fondato con la Chiesa cattolica e le autorità locali l’ospedale san Luca di Wolisso, che si trova in Oromia, la regione più “calda” al momento in Etiopia. Da qui è partita la protesta contro il governo nel novembre dello scorso anno e che si è propogata ad ondate, con nuovi e gravi episodi all’inizio di ottobre.
A suscitare la protesta è stato l’Integrated Developement Master Plan, un progetto di estensione della capitale Addis Abeba che prevede la creazione di una zona industriale nella regione dell’Oromia e l’esproprio di terreni agricoli dell’area interessata. Lo scorso gennaio il governo ha ritirato il piano, bollato come “land grabbing” dagli oromo, ma le proteste sono proseguite per chiedere maggiore rinascimento politico, economico e culturale. Da decenni gli oromo, che rappresentano il 34% della popolazione etiope denunciano abusi da parte del governo. A scendere in strada è stata però anche «una nuova generazione di giovani che ha accesso all’informazione tramite Internet e si tiene in contatto con i social media, che non è più disposta ad accettare in silenzio l’autorità indiscussa e quasi “sacra” del governo centrale», afferma un cooperante italiano appena rientrato all’Etiopia. E, soprattutto agli oromo si sono affiancati gli amhara, il secondo gruppo etnico più numeroso del Paese (27% degli etiopi). Segno che gli equilibri sono profondamente cambiati: l’attuale esecutivo, guidato dal Fronte rivoluzionario del popolo etiopico ed espressione della minoranza tigrina (pari al 6 %) finora è riuscito a mantenere un controllo pressoché totale (alle elezioni del 2015 ha annunciato la vittoria con il 100% dei consensi per la propria coalizione), puntando su una divisione, quella fra oromo e amhara, che ha radici storiche. Ma ora la solidarietà crescente fra i due gruppi, che insieme rappresentano quasi due terzi della popolazione, rende difficile ingorare le proteste.
All’inizio di ottobre, centinaia di migliaia di dimostranti sono scesi in strada in Oromia e nella regione dell’Amhara, per chiedere riforme politiche e più diritti. L’episodio più grave si è verificato il 2 ottobre, durante l’annuale raduno religioso in Oromia a Bishoftu, località sul grande lago Harsadi a circa 40 chilometri a sud-est di Addis Abeba. La polizia è intervenuta esplodendo colpi e gas lacrimogeni sulla folla, in mezzo alla quale c’era chi scandiva slogan anti-governativi. Uomini, donne e bambini sono morti calpestati nella calca. Secondo il governo le vittime sono state 52. Il direttore di Oromia Media Network, Jawar Mohammed, ha invece scritto su twitter che i cadaveri recuperati e trasportati ad Addis Abeba sono stati 175 e che altre 120 feriti sono stati ricoverati nell’ospedale di Bishoftu. Secondo Human Rights Watch, dall’inizio delle proteste le vittime sono state almeno 500. Cifre esagerate secondo il governo. Ma ciò che sta accadendo in Etiopia, Paese sul quale Stati Uniti e Unione europea hanno sempre puntato come “garante” di stabilità nel Corno D’Africa, desta serie preoccupazioni.
Le radici di questo conflitto interno non sono però solo legate a una mancata condivisione del potere delle diverse etnie. A giocare un peso rilevante, oltre alla storica discriminazione degli oromo, sono gli squilibri economici e, soprattutto le decisioni legate alla gestione della terra, che negli ultimi decenni hanno reso l’Etiopia uno dei Paesi più esposti al “land grabbing”, ovvero l’acquisizione di ampi appezzamenti di terreno da parte di investitori esteri.
La crescita economica, a un ritmo di +10% l’anno, non ha beneficiato l’80% della popolazione che vive di agricoltura e pastorizia, i prezzi dei beni alimentari sono invece lievitati, soprattutto dopo la siccità che ha colpito lo scorso anno il Paese.