Riprendono oggi a Nairobi i colloqui tra le parti in conflitto, dopo la firma di un accordo di pace lo scorso 2 novembre a Pretoria. Intanto, però, nella regione del Tigray non cessano le violenze e la crisi umanitaria, aggravata dalla siccità, si fa sempre più grave
Non ce l’hanno fatta al primo tentativo. Ma al secondo almeno c’è un abbozzo di pace. Esattamente due anni dopo lo scoppio del conflitto in Tigray, nel nord dell’Etiopia, è stato firmato il 2 novembre a Pretoria, in Sudafrica, un accordo di cessate-il fuoco tra il governo di Addis Abeba e i miliziani del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Fplt). E oggi, a Nairobi, le delegazioni si ritrovano per continuare le mediazioni, che prevedono ulteriori tappe a Macallè nel Tigray e possibilmente ad Addis Abeba per finalizzare l’accordo».
«Non si tratta della fine, ma dell’inizio del processo di pace», ha tenuto a sottolineare l’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, inviato speciale per il Corno d’Africa e mediatore-capo dell’Unione Africanl (UA), ben consapevole delle difficoltà e degli ostacoli che tale percorso presenta. Del resto, mentre i colloqui erano in corso a fine ottobre, l’esercito federale etiope assaliva e conquistava alcune città strategiche del Tigray, con artiglieria pesante e attacchi aerei: il che ha permesso al governo di negoziare a partire da una posizione di forza. Alcuni punti fermi, tuttavia, sembrano stati raggiunti e non sono poca cosa soprattutto per la popolazione civile messa in ginocchio dai combattimenti, ma anche dalla mancanza di aiuti umanitari.
L’accordo di Pretoria prevede la «cessazione permanente delle ostilità, un disarmo ordinato, regolare e coordinato insieme al ripristino della legge dell’ordine e dei servizi oltre al libero accesso agli aiuti umanitari e alla tutela di donne e bambini», ha precisato Obasanjo.
Ora si tratta di tradurlo in pratica. E per questo ci vuole la volontà politica di tutti: del governo di Abiy Ahmed, primo ministro etiope che, dopo aver ricevuto il Nobel per la pace nel 2019 per aver messo fine alla guerra con l’Eritrea, ha scatenato un conflitto interno -; del Fronte popolare di liberazione del Tigray che controlla politicamente la regione e dispone di una notevole capacità militare; e anche dell’Eritrea che è intervenuta in questi ultimi mesi con pesanti bombardamenti. Insomma, un quadro complesso in cui si intrecciano questioni etniche, economiche ed egemoniche in quella che – come lo stesso Obasanjo ha fatto notare – «è una grande nazione e dovrebbe continuare ad esserlo».
I segnali sul terreno, tuttavia, non sono particolarmente incoraggianti. All’indomani dell’accordo, infatti, è stata bombardata dall’esercito federale la città tigrina di Mai Ceu nel sud della regione, mentre l’Esercito di liberazione oromo (Ola), alleato del Fronte tigrino, ha conquistato la città occidentale di Mendi e rapito un numero imprecisato di funzionari, secondo fonti della Bbc, che parlano di intensi combattimenti.
Il coinvolgimento dell’Ola, braccio armato del Fronte di liberazione oromo (Olf), introduce un ulteriore elemento di complessità in questo conflitto. E mostra come l’Etiopia – che con i suoi 118 milioni di abitanti è uno dei Paesi più popolosi dell’Africa – sia sempre più divisa al suo interno lungo linee di frattura etnico-politiche. Un retaggio del passato che si ripercuote anche sulla stabilità del presente, in un Paese che deve fare i conti anche con una gravissima e perdurante siccità che ha ulteriormente aggravato le condizioni di vita di una grossa fetta della popolazione.
«Gli ultimi due anni sono stati teatro di situazioni strazianti – ha dichiarato il vicario apostolico di Jima Bonga, Markos Ghebremedhin -. Moltissime persone hanno perso la vita e le loro proprietà e molti sono stati sfollati. Preghiamo e speriamo che il risultato di questi colloqui porti a ripristinare la pace nel Paese in modo da poter ricostruire la nostra nazione».
«L’accordo di pace è un passo nella giusta direzione – ha dichiarato la direttrice di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale, Muleya Mwananyanda – anche se occorrerà fare altro per accertare le responsabilità dei crimini commessi negli ultimi 24 mesi. Tutte le parti in conflitto hanno commesso violenze indicibili tra cui esecuzioni extragiudiziali e stupri di guerra, che non possono essere nascoste sotto il tappeto».
Anche Papa Francesco, al termine della sua visita in Bahrain, ha citato l’accordo di Pretoria come «un segno di speranza», invitando tutti «a percorrere le vie del dialogo», affinché «il popolo ritrovi presto una vita serena e dignitosa».