Papa Francesco ha di nuovo lanciato un appello affinché «questo sia un tempo di fraternità e di solidarietà in cui dare ascolto al comune desiderio di pace». Ma dall’Etiopia continuano ad arrivare notizie di guerra mentre si aggrava la crisi umanitaria
Dopo quasi dieci mesi di un conflitto che era stato spacciato per “guerra-lampo”, la crisi in Etiopia ha raggiunto la sua fase probabilmente più critica. Sia perché quello che doveva essere un conflitto tra il governo centrale e il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) rischia ora di estendersi al resto del Paese e di trasformarsi in una vera e propria guerra civile; sia perché la situazione umanitaria non è mai stata così drammatica.
Catastrofe umanitaria
Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres l’ha definita «una catastrofe umanitaria… che si sta svolgendo davanti ai nostri occhi». Anche Papa Francesco è di nuovo intervenuto su questa crisi mercoledì 8 settembre in occasione dell’udienza generale. «Il prossimo 11 settembre in Etiopia si celebrerà il Capodanno – ha detto il Pontefice -. Rivolgo al popolo etiope il mio più cordiale e affettuoso saluto, in modo particolare a quanti soffrono a motivo del conflitto in atto e della grave situazione umanitaria da esso causata. Sia questo un tempo di fraternità e di solidarietà in cui dare ascolto al comune desiderio di pace».
Secondo le Nazioni Unite, migliaia di persone sono state uccise e più di due milioni hanno dovuto lasciare le proprie case. Circa 5,2 milioni hanno bisogno di assistenza urgente se si vuole evitare «la peggiore carestia mondiale degli ultimi decenni»; 400 mila sono già alla fame.
Ma gli aiuti umanitari ancora non riescono a passare: le agenzie Onu hanno denunciato che dal 22 agosto a inizio settembre nessun camion di aiuti è riuscito ad arrivare in Tigray. «La regione rimane di fatto in uno stato di blocco, in quanto l’accesso per portare aiuti umanitari salvavita continua a essere estremamente limitato», ha dichiarato Grant Leaity, coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per l’Etiopia. «A causa dell’impossibilità di portare livelli sufficienti e sostenuti di forniture umanitarie, denaro e carburante, la situazione umanitaria nel nord dell’Etiopia è destinata a peggiorare drammaticamente, in particolare nella regione del Tigray». Secondo Leaity, «la vita di milioni di civili, dipende dalla nostra capacità di raggiungerli con cibo, medicine e altri aiuti essenziali. Dobbiamo farlo immediatamente e senza ostacoli per evitare carestie e livelli significativi di mortalità».
Come se ciò non bastasse, sia l’esercito federale che le forze armate del Tigray sono stati accusati di aver saccheggio gli aiuti e di aver provocato la morte di numerosi operatori umanitari. Entrambe le parti hanno smentito il coinvolgimento di loro uomini nei saccheggi, facendo cadere la responsabilità su gruppi o individui locali. Difficile sapere cosa stia realmente accadendo – pure dal punto di vista militare – anche perché la macchina della propaganda si è attivata a con grande solerzia ed efficacia sin dall’inizio del conflitto lo scorso novembre.
Anche la Chiesa cattolica che è riuscita a raccogliere 1,8 milioni di dollari per l’emergenza umanitaria in Tigray (75% già stato speso), ha dovuto sospendere la distribuzione degli aiuti, realizzata grazie al sostegno di Caritas Internationalis e di altre organizzazioni locali e internazionali, a causa dell’aggravarsi della situazione. «La guerra distrugge solo vite e proprietà – hanno scritto i vescovi cattolici etiopi – e la scelta da compiere non dovrebbe essere quella del conflitto, bensì quella della pace e della riconciliazione, perché la violenza non è mai un rimedio ai torti o una soluzione alle crisi».
Venti di guerra
Di fronte a questa situazione catastrofica tutti i tentativi di pacificazione – in particolare dell’Unione Africana che ha sede proprio ad Addis Abeba – paiono arrancare. Il desiderio di pace sembra appartenere solo alla popolazione civile che continua a subire le peggiori atrocità: questo tema, tuttavia, non pare essere la priorità dei leader in campo. Il primo ministro Abiy Ahmed ha tradito ogni promessa di costruire un Paese pacifico al suo interno e strategico per gli equilibri regionali (cosa che peraltro gli è valsa un immeritatissimo Nobel per la pace). Ma anche la leadership tigrina, galvanizzata dai recenti successi, sembra più che mai intenzionata a proseguire nell’offensiva militare: dopo una prima fase di difficoltà e smarrimento, lo scorso giugno ha infatti ripreso il controllo di quasi tutta la regione del Tigray e si sta espandendo nelle regioni limitrofe Amhara e Afar, occupando anche l’antichissima città di Lalibela, con le sue magnifiche chiese rupestri patrimonio dell’umanità dell’Unesco. E ora minaccia addirittura di marciare sulla capitale Addis Abeba.
Anche in questo caso, però, è particolarmente difficile capire se si tratta dell’ennesima operazione di propaganda o di una minaccia reale. Molte delle informazioni fatte circolare, infatti, sono difficilmente verificabili da fonti giornalistiche autonome o della società civile. Quel che è certo è che entrambe le parti sono responsabili di crimini atroci, come omicidi e stupri di massa.
Rischio implosione
Come se non bastasse la crisi tigrina, anche l’Esercito di liberazione oromo (Ola) – etnia a cui appartiene peraltro lo stesso Abiy nonché la più numerosa del Paese (34% contro il 6% dei tigrini) – ha risollevato la testa e deciso di allearsi con gli ex nemici del Tplf.
«L’unica soluzione è rovesciare questo governo con le armi, parlando la lingua che vogliono sentire – ha minacciato in un’intervista ad AP Kumsa Diriba, leader dell’Ola, gruppo armato che si è distaccato dall’Oromo Liberation Front e che chiede l’autodeterminazione del suo popolo -. Abbiamo concordato un grado di intesa per cooperare contro lo stesso nemico, in particolare in ambito militare» ad esempio con attacchi simultanei contro l’esercito federale in regioni diverse del Paese. Secondo Kumsa, sarebbero in corso vari colloqui anche con altri gruppi ribelli con l’obiettivo di creare «una grande coalizione contro il regime».
Intanto, però, gli stessi miliziani dell’Ola si sarebbero resi responsabili di massacri di civili nella regione dell’Oromia. «Uomini armati legati all’Esercito di liberazione oromo hanno ucciso circa 150 persone nell’ultima settimana – ha riferito a fine agosto la Commissione etiope per i diritti umani (Ehrc) -. Altre decine di civili sono morti in seguito a rappresaglie di matrice etnica in varie località del territorio».
Lo scenario di complica e si aggrava sempre di più, al punto che molti analisti preconizzano per l’Etiopia un serio rischio di implosione.