Scontri e violenze nella regione del Tigray. Dichiarazioni belligeranti del premier Abyi Ahmed e dei leader del Fronte di Liberazione Popolare del Tigray. Appelli alla pace caduti nel vuoto. L’Etiopia rischia di precipitare nell’abisso della guerra
Ha fatto la pace con gli eritrei e ora sta facendo la guerra ai tigrini. Il primo ministro etiope Abiy Ahmed – Premio Nobel per la Pace 2019 proprio per lo storico accordo con L’Asmara – è sul piede di guerra. Dopo aver cercato di onorare il prestigioso riconoscimento, facilitando anche i negoziati in Sud Sudan, Ahmed si trova ora a invischiato in una situazione di conflitto con la regione più settentrionale del Paese, il Tigray, che rischia di sfuggirgli di mano.
Da quando è arrivato al potere nell’aprile 2018, Ahmed ha fatto sempre più fatica a trovare un equilibrio tra promettenti prospettive di sviluppo, tentativi di modernizzazione e democratizzazione, ambizioni di leadership regionale e la gestione delle ricorrenti tensioni politiche ed etnico-sociali interne al Paese. E così – pure lui! – ha finito col ricorrere alla “scorciatoia” di sempre: quella delle armi. Sono giorni, questi, di eserciti dispiegati e bombardamenti, di dichiarazioni belligeranti e di accuse reciproche. Ma soprattutto di morti, feriti e gente in fuga.
Il fuoco covava sotto la cenere da molto tempo, da quando cioè questo giovane leader oromo di 44 anni, madre cristiana e padre musulmano, sposato con una donna ahmara, aveva preso il posto del suo predecessore Hailé Mariàm Desalegn, dopo tre anni di violente proteste, facendo intravvedere la possibilità di aprire una pagina nuova della storia dell’Etiopia: più inclusiva al suo interno, più ambiziosa a livello regionale e internazionale. Ma dopo i primi passi molto incoraggianti, era stata subito evidente l’ostilità dell’élite tigrina che rappresenta il 5 % dei 109 milioni di abitanti del Paese: un’etnia che, di fatto, ha sempre controllato il potere e che con Abiy era stata messa decisamente da parte. D’altro canto, però, le speranze degli oromo – tradizionalmente marginalizzati dal punto di vista economico, politico e socio-culturale – non hanno trovato soddisfazione. Al punto che, l’uccisione di un famoso cantante oromo, Hachalu Hundessa, a fine giugno, è diventato il pretesto per violentissimi scontri, sia nella capitale Addis Abeba con un centinaio di morti, sia in altre aree del Paese, con morti e feriti, devastazioni e saccheggi. A inizio novembre, sono stati invece gli stessi oromo a rendersi responsabili di un terribile episodio nella zona di West Welega, dove sono state massacrate 54 persone del gruppo etnico amhara e distrutto più di un centinaio di abitazioni.
La pandemia del Coronavirus non ha fatto che esasperare le tensioni e il malcontento su vasta scala, e molti etiopi non si sono stupiti di fronte all’escalation della crisi nella regione del Tigray. Del resto, già nel dicembre del 2019, il Fronte di Liberazione Popolare del Tigray (Flpt) era stato l’unico partito a rifiutare di fondersi nel Prosperity Party, una sorta di partito di unità nazionale voluto da Abiy, come superamento dell’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (di cui il Fronte tigrino era il partito dominante) e delle forti connotazioni etniche delle altre formazioni politiche. Di qui sarebbe cominciata anche una serie di arresti di esponenti di spicco del Flpt e di indagini su alcune società ad esso legate.
Rischio guerra civile
Tutte queste tensioni rischiano ora di trasformarsi in una vera e propria guerra civile. Due i fattori scatenanti: il primo, lo scorso settembre, l’elezione dell’amministrazione regionale, che il governo federale di Addis Abeba aveva chiesto di posticipare a causa della pandemia di Covid-19. Ma l’Flpt, che pure era già saldamente al potere, ha deciso di tenere comunque le elezioni che ha vinto con il 98 per cento dei voti.
Il secondo fattore – decisivo – è quello militare. Secondo fonti del governo di Addis Abeba, l’Flpt avrebbe attaccato una base militare federale. E la reazione del premier è stata durissima: dichiarazione dello stato di emergenza nella regione il 4 novembre e intervento massiccio dell’esercito con carri armati e aerei. Alcuni generali federali hanno riportato esplicitamente di «situazioni di guerra» con scambi di artiglieria, mentre dal Tigray arrivavano testimonianze di bombardamenti aerei sulla capitale regionale Makallé.
Anche la macchina della propaganda è entrata in azione. Da un lato, il governo di Addis Abeba afferma che l’esercito federale avrebbe preso il controllo di diverse aree soprattutto a Ovest; dall’altro, il Fronte di liberazione popolare del Tigray dichiara di essere impegnato a difendere la regione. «Le operazioni – ha dichiarato il premier Ahmed – hanno obiettivi chiari, limitati e realizzabili per ripristinare lo stato di diritto e l’ordine costituzionale e per salvaguardare i diritti degli etiopi a condurre una vita pacifica ovunque si trovino nel Paese». Dal canto loro, i leader del Tigray sostengono di essere di fronte a «un’invasione. Noi combattiamo per preservare la nostra esistenza», si difendono. E resistono. Secondo l’International Crisis Group, infatti, «considerate le capacità delle forze di sicurezza del Tigray, il conflitto potrebbe facilmente protrarsi».
Appelli alla pace
Anche i molti appelli alla pace arrivati da più parti sembrano caduti nel vuoto. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha ricordato come «la stabilità dell’Etiopia è importante per tutto il Corno d’Africa». Per il momento, tuttavia, il Presidente dell’Eritrea, Isaias Afwerki, non sembrerebbe intenzionato a mischiarsi nel conflitto, e sembrerebbe più vicino ad Abiy che ai leader del Tigray, anche se ci sarebbero voci non confermate di movimenti dell’esercito eritreo. Anche per questo Guterres ha chiesto «un immediato allentamento delle tensioni e una pacifica risoluzione delle controversie».
Anche il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, ha chiesto la «cessazione immediata delle ostilità» e ha esortato il governo centrale e le autorità statali del Tigray a impegnarsi in un dialogo per cercare una soluzione pacifica e manifestando la disponibilità della stessa UA a sostenere uno sforzo per risolvere il conflitto.
«Tutto ciò porterà il Paese al fallimento e non gioverà a nessuno», hanno stigmatizzato i vescovi cattolici dell’Etiopia, che hanno dovuto constatare amaramente che «nonostante gli sforzi dei leader religiosi, degli anziani e di altre parti interessate per disinnescare le violenze, si è avuta un’escalation delle tensioni».
Anche Papa Francesco è intervenuto alla fine dell’Angelus di domenica 8 novembre: «Esorto a respingere la tentazione dello scontro armato, invito tutti alla preghiera e al rispetto fraterno, al dialogo e alla ricomposizione pacifica delle discordie».