Nell’anniversario del massacro di Addis Abeba cominciato il 19 febbraio 1937, alcune iniziative cercano di fare luce su una pagina oscura e “dimenticata” della storia coloniale italiana
È il 19 febbraio 1937. Ad Addis Abeba, in Etiopia, gli italiani festeggiano la nascita del primogenito del principe Umberto di Savoia – quel Vittorio Emanuele di cui qualche settimana fa si sono tenuti i funerali a Torino. Sono presenti autorità italiane e locali, ma su tutti primeggia Rodolfo Graziani (1882-1955), viceré d’Etiopia e artefice della sconfitta dell’Impero di Hailé Selassié. In sette mesi, Graziani aveva conquistato il Paese del Corno d’Africa usando ogni mezzo. Tutte le guerre seminano solo morte, ma il generale italiano aveva oltrepassato ogni limite per assicurarsi la vittoria. Con l’autorizzazione di Mussolini, non aveva esitato a impiegare i gas tossici vietati dalla Convenzione di Ginevra del 1925, che l’Italia aveva ratificato. Soldati ma anche civili etiopi erano stati colpiti da una pioggia di bombe all’iprite, o gas mostarda, che provoca la formazione di dolorose vesciche sul corpo e porta alla morte. Gli italiani lo sapevano bene, visto che quest’arma letale, usata durante la Prima Guerra mondiale in Europa, era stata proibita proprio per le sofferenze atroci che causava. L’intera campagna in Etiopia era stata condotta con estrema crudeltà, sterminando i nemici presi prigionieri, incendiando villaggi e chiese e deportando intere comunità.
Chi conduce una guerra così efferata non può che raccogliere odio. Due giovani studenti, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, quel 19 febbraio durante la celebrazione riescono a lanciare delle bombe a mano su Graziani, che rimane ferito. Il pomeriggio stesso si scatena una rappresaglia contro l’inerme popolazione etiope. Per tre giorni, a partire da Yekatit 12 – la data del calendario locale corrispondente al 19 febbraio – Addis Abeba diventa un inferno. «Tutti i civili hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente con i sistemi del più autentico squadrismo fascista», annotava il giornalista Ciro Poggiali. «Girano armati di manganelli e sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada». Sono italiani, gente comune che fa il negoziante o l’autista, a trasformarsi in efferati assassini, spargendo benzina sui tucul – le modeste case degli abissini – in cui si trovano intere famiglie e bruciando vivi donne, bambini, anziani. Oltre ai morti, circa 4.000 persone vengono arrestate senza motivo e confinate in campi di concentramento. La popolazione di Addis Abeba non aveva alcun legame con gli attentatori che – come sarà poi appurato – si erano mossi da soli. Ma anche se avessero avuto degli appoggi, nulla giustifica l’enormità della strage oggi nota come Yekatit 12, una pagina oscura e vergognosa della storia delle imprese coloniali italiane. Secondo Angelo Del Boca, lo storico che per primo ha scoperchiato il vaso di Pandora con i nostri crimini coloniali, ancora oggi non è possibile definire con certezza il numero delle vittime. I cadaveri furono gettati frettolosamente in fosse comuni o bruciati con i lanciafiamme. Un migliaio di persone secondo Graziani, ma altre fonti riportano dai 1.400 ai 6.000 morti, mentre gli etiopi parlano di circa 30 mila.
A questo orrore, segue lo sterminio degli indovini e dei cantastorie, accusati di diffondere notizie false contro gli italiani. E poi, il 19 maggio, la famigerata operazione del generale Pietro Maletti, voluta da Graziani, contro il monastero di Debrà Libanòs, risalente al XIII secolo e ritenuto un covo di ribelli ostili al dominio italiano. Monaci, preti, diaconi e studiosi di teologia vengono fucilati senza alcuna prova del loro coinvolgimento nella resistenza. Il bilancio è terrificante: circa 2.000 morti. «Mai, nella storia dell’Africa, una comunità religiosa aveva subito uno sterminio di tali proporzioni», scrive Angelo Del Boca in Italiani, brava gente?. Un massacro perpetrato, tra l’altro, da un Paese che si definiva cristiano su altri cristiani.
Da qualche anno, in diverse città italiane gruppi di cittadini e associazioni puntano il dito contro la scarsa conoscenza della nostra storia coloniale. L’immagine dell’italiano gentile e portatore di civiltà fa parte ancora dell’immaginario collettivo. La verità è che gli italiani non sono stati migliori rispetto alle altre potenze coloniali occidentali. Anzi, in alcuni casi sono stati persino peggiori. L’uso dei gas e le deportazioni della popolazione civile rappresentano una macchia d’infamia nella nostra storia. Sull’anniversario della strage di Addis Abeba, quest’anno la Rete Yekatit12-19Febbraio ha organizzato numerose iniziative in tutta Italia. Non solo Milano e Roma, ma anche Bologna, Modena, Napoli, Padova, Ravenna, Reggio Emilia, Siena, Bari ospitano momenti di incontro e di dibattito, concerti, proiezioni, letture, eventi. Lo scopo è «contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia, con l’obiettivo di proporre strumenti sempre più accurati per leggere la realtà in cui viviamo, i suoi legami con la storia recente dell’Italia e con la sua costruzione statuale, nazionale e identitaria», spiegano gli organizzatori della Rete, che include persone afrodiscendenti, ma anche tanti italiani sensibili a queste tematiche. L’iniziativa, giunta alla seconda edizione, ha esordito nel 2023 a Roma, riuscendo quest’anno a raggiungere una copertura nazionale.
Un punto interessante che anche la Rete Yekatit12-19Febbraio affronta riguarda l’odonomastica, ossia i nomi delle vie. Un esempio? In numerose città italiane esistono vie “Amba Aradam”, di cui forse a malapena qualcuno ricorda che si tratta di un massiccio montuoso dell’Etiopia. In realtà, questa denominazione richiama la battaglia vinta dal maresciallo Pietro Badoglio nel 1936, in cui i nostri aerei poco eroicamente bombardarono con l’iprite i combattenti e i civili etiopi in fuga. Se cambiare il nome a una via in una grande città può essere complicato, è comunque importante fare informazione perché gli abitanti siano consapevoli di cosa rappresenta quel nome e di quale storia incarna. C’è anche chi è riuscito a intervenire: Mantova e Castiglione delle Stiviere, per esempio, avevano vie dedicate al generale Pietro Maletti, il comandante dell’eccidio di Debrà Libanòs, che sono ora intitolate rispettivamente a Tina Anselmi e a Maria Montessori. E così a Cocquio Trevisago in provincia di Varese, dove via Maletti è diventata via Martiri Cristiani.
Non si può tornare indietro e cancellare la Storia. Ma non si può neppure far finta che nulla sia accaduto. I colpevoli delle stragi non ci sono più da decenni: se ne sono andati senza aver pagato per i loro crimini. Le giovani generazioni hanno diritto di sapere e di essere consapevoli che la storia del nostro Paese ha anche pagine oscure.