Fratel Jean Pierre, eredità vivente da Tibhirine a Midelt

Fratel Jean Pierre, eredità vivente da Tibhirine a Midelt

Nel monastero di Notre Dame de l’Atlas, in Marocco, fratel Jean Pierre porta avanti, insieme ai suoi confratelli trappisti, una presenza monastica in terra d’islam

 

Apparentemente nulla è cambiato. Oggi come ieri, se qualcuno bussa al monastero di Notre Dame de l’Atlas, è fratel Jean Pierre che apre la porta. Oggi in Marocco, al limitare della città di Midelt sul Medio Atlante. Quindici anni fa a Tibhirine, sui contrafforti dell’Atlante algerino, nei pressi della città di Medea. Gli occhi blu vivacissimi, un viso da ottuagenario che si apre volentieri al sorriso, molto lucido e sereno, fratel Jean Pierre è l’ultimo sopravvissuto del massacro dei monaci di Tibhirine nel 1996. Sette vite spazzate via dalla follia mortifera degli anni neri del terrorismo islamista.
E tuttavia molto è cambiato. Dopo la partenza dei monaci trappisti – che avevano tentato una nuova installazione tra il 1998 e il 2001 – il monastero di Tibhirine continua a vivere una vita semplice e precaria, senza la presenza fissa di una comunità monastica. Dall’altro lato della frontiera, in Marocco, il monastero di Notre Dame de l’Atlas – che ha ereditato il nome da quello di Tibhirine – ospita una piccola comunità di tre persone, che accoglierà un nuovo monaco in luglio. Vita precaria, anche qui, sottolinea il priore, fratel Jean Pierre (anche lui!): «Precarietà che è la cifra pregnante della nostra presenza, ospiti in un Paese in cui siamo stranieri per origine e per religione e dove conduciamo una vita molto umile e povera, di preghiera e di lavoro, completamente nelle mani di Dio».
Jean Pierre il vecchio – il sopravvissuto -, Jean Pierre il giovane – il priore – José Luis – il fratello spagnolo – continuano a testimoniare attraverso la loro vita gratuita il senso di una presenza monastica in un contesto esclusivamente musulmano, la sola in tutto il Maghreb. Oranti in mezzo ad altri oranti, come amava ripetere Christian de Chergé, priore di Tibhirine.

È UNA BELLA MATTINA di gennaio, limpida e fredda. Il monastero, conosciuto come Kasbah Myriem – nome ereditato della presenza di più di sessant’anni delle suore francescane missionarie di Maria – è illuminato dal sole che sorge dietro le montagne dell’Atlante, spruzzate di neve. Jean Pierre il vecchio ha appena celebrato la Messa. «Abana l’azi fi- samawat…» Il Padre nostro è stato cantato in arabo, come pure il Sanctus; l’ostensorio è un’opera berbera, nelle intenzioni di preghiera ci si ricorda dei vicini e degli ospiti… Tutti segni di una grande attenzione al contesto.
Ottantasette anni in febbraio, fratel Jean Pierre è l’eredità vivente di Tibhirine; la sola, dopo la morte nel luglio del 2008, di fratel Amédée, l’altro superstite del massacro. Ha assunto su di sé il martirio dei suoi fratelli, che «hanno dato la loro vita sino all’estremo». «Era la scelta che avevamo fatto – dice con estrema semplicità -: restare, nonostante tutto, continuare a essere una Comunità di preghiera accanto ai nostri vicini musulmani. Non potevamo partire. La nostra presenza al monastero era un segno di fedeltà al Vangelo, alla Chiesa e alla popolazione algerina. Non volevamo essere martiri, piuttosto segni d’amore e di speranza».
Speranza contro la morte, contro la guerra, contro la violenza. Lo ripete anche il priore. «Non possiamo concepirci qui se non nel solco di Tibhirine, proseguendo molto umilmente la stessa missione, eredità di un martirio che è spiritualmente fonte di vita e di speranza. Attraverso questa piccola comunità vogliamo mostrare che un ravvicinamento tra religioni è possibile, nella gratuità e nel disinteresse, cominciando dalle buone relazioni con i vicini. Ecco l’essenziale della nostra presenza oggi: questo “vivere con”, dando la nostra vita per testimoniare l’amore di Dio in mezzo ai nostri fratelli musulmani e nel cuore della piccola Chiesa del Marocco».
Una testimonianza che continua in modo diverso a Tibhirine, grazie alla presenza di un sacerdote della Comunità Mission de France, padre Jean-Marie Lassausse. Da dieci anni egli garantisce, con gli stessi operai che erano lì con i monaci, la coltivazione del piccolo terreno agricolo del monastero e, allo stesso tempo, cerca di rafforzare le relazioni con il vicinato, di dare un sostegno alla piccola scuola del villaggio, di offrire accoglienza agli ospiti e ai pellegrini, e di dare continuità al laboratorio di ricamo che raccoglie una trentina di ragazze, animato da una suora.
Padre Jean-Marie è in visita al monastero di Midelt: il presente di Tibhirine che incontra il passato e trova, in questo luogo, una nuova sintesi, fonte di speranza per il futuro. Dinanzi al piccolo memoriale dedicato ai sette monaci assassinati in Algeria, Jean Pierre e Jean-Marie scambiano memorie e notizie. Molti, a Tibhirine, si ricordano del fratello portiere, quello che faceva le spese e che, con fratel Luc, il medico, aveva molte relazioni con la gente del posto. Youssef e Samir, gli operai del monastero, e alcuni amici del villaggio hanno inviato i loro saluti e i loro auguri attraverso Jean-Marie. «Facevo le spese tre volte la settimana – ricorda il monaco, che conserva una memoria molto viva e precisa -, andavo al mercato per vendere i nostri prodotti, ero, in un certo senso, il monastero in mezzo alla gente».

LA SUA FIGURA fragile e un po’ ricurva si profila dinanzi ai ritratti dei suoi fratelli uccisi. È come se fosse ancora fra loro. E tuttavia è evidente che ha rielaborato questa tragedia come un atto d’amore, di fiducia e di abbandono a Dio. Le questioni politiche e giudiziarie, le polemiche che ritornano regolarmente attorno all’assassinio dei monaci, non lo toccano. «Sono sicuro – dice con serenità – che hanno saputo dimostrare la loro dolcezza di uomini di preghiera persino fra i terroristi».
Fratel Jean Pierre si lascia andare volentieri ai racconti. Prende il tempo calmo dell’incontro con l’ospite per attingere alle memorie di una lunga vita, dedicata soprattutto alla preghiera. Sette volte al giorno. A cominciare dalle quattro di mattina. Qui, al monastero di Midelt, la campana suona prima del muezzin, i due appelli alla preghiera si rispondono come un tempo a Tibhirine, la gente sa quando non bisogna suonare alla porta. «Mi piace molto recitare gli Uffici! », confida fratel Jean Pierre sorridente. Ed è lui ancora oggi che intona i canti nella piccola cappella, il cui coro è sovrastato da una copia del crocifisso di Tibhirine, il Cristo in gloria, come lo aveva voluto Christian de Chergé.
Jean Pierre, il priore, vigilia su di lui con la delicatezza di un vero fratello. Con e attorno a Jean Pierre il vecchio, il solo sopravvissuto, guida questa piccola comunità in contesto musulmano con discrezione e passione. Rigorosi nel rispetto delle rigide norme trappiste, ma con un carisma particolare per l’apertura. «Non tutti lo capiscono, neppure nella Chiesa o nel nostro ordine. Ma non vedo come sia possibile vivere la nostra vocazione monastica in un contesto musulmano senza essere aperti alla gente che ci circonda, alla loro cultura e alla loro religione. Partecipando alle loro feste e ai loro lutti, condividendo il digiuno del Ramadan così come le nostre gioie. Ecco il nostro modo di vivere il dialogo islamo-cristiano. Dialogo della vita. Nel quotidiano».
Gli operai del monastero stanno preparando il tè per la pausa di metà mattina. I monaci sono lì con loro. Gli ospiti pure. L’accoglienza dei berberi della montagna è proverbiale. In tutti i piccoli gesti. Le lingue si mescolano: arabo, berbero, francese, alcune parole di spagnolo e d’italiano che si intrufolano… L’ambiente è familiare. Jean Pierre il vecchio aggiunge: «È come a Tibhirine. Dialogo terra-terra. Con gente semplice. Ci si intendeva molto bene. Quando sono arrivato nel 1964, c’è voluto un po’ di tempo per conoscerci reciprocamente. In seguito, ci si sentiva davvero in famiglia».
Il villaggio di Tibhirine è cresciuto attorno al monastero. «Siamo come uccelli; voi, i rami. Se partite dove ci poseremo? », chiede una donna a Chri¬stian de Chergé durante i giorni difficili del discernimento: partire o restare? «Restare – conferma risolutamente fratel Jean Pierre -. Era evidente. Anche se molte persone non hanno capito la nostra scelta. Non eravamo degli ingenui. Conosce¬vano perfettamente i rischi. Ma dovevamo restare».

I RICORDI DELLA NOTTE del rapimento, quella tra il 26 e il 27 marzo 1996, sono ben fissati nella sua memoria. «Ero nella mia camera in portineria – rammenta -, poco fuori dalla clausura. Ho sentito dei rumori. Ho pensato che i terroristi fossero venuti per cercare le medicine, come in precedenza. Non mi sono mosso finché qualcuno non è venuto a bussare alla mia porta. Ho avuto paura. Ma ho aperto. Era un sacerdote della diocesi di Orano che era al monastero con il gruppo di dialogo islamo-cristiano Ribat el Salaam, il “Legame della pace”: veniva a dirmi che i miei confratelli erano stati rapiti».
Lo shock è stato grande così come il senso di disorientamento. «Ma all’inizio nessuno pensava che potessero fare del male a dei monaci, uomini di preghiera rispettati da tutti». E ricorda un dettaglio, secondario nella furia degli eventi che hanno seguito il rapimento, ma che fa emergere il senso di fratellanza che si viveva nel monastero. «Lasciando Tibhi¬rine il giorno successivo con fratel Amédée, dopo avere chiuso tutto e dato del lavoro agli operai, abbiamo portato con noi una grande pentola di fagioli che fratel Luc stava preparando quella notte. La sera, alla casa diocesana di Algeri, dove molti altri religiosi e religiose si erano rifugiati abbiamo mangiato quei fagioli, dicendo: “È fratel Luc, questa sera, che ci ha preparato la cena”».
Non hanno mai pensato di rientrare in Francia. «Per me e Amédée era chiaro: se non fosse stato più possibile tornare a Tibhirine avremmo continuato la nostra vita monastica in un altro Paese musulmano, in una comunità piccola e povera. Del resto, era la decisione che la comunità aveva preso già nel 1993, dopo la prima incursione dei terroristi alla vigilia di Natale. Se un giorno fossimo stati obbligati a lasciare l’Algeria, il desiderio di tutti era di venire nella nostra comunità marocchina, che all’epoca si trovava a Fès».
È lui, Jean Pierre, il primo a partire. Amédée che aveva la nazionalità algerina, rimane ad Algeri. «Partendo ho detto ad Amédée: “Ho la sensazione che non ritornerò mai più”».
La tragica conclusione del rapimento dei monaci ha fatto sì che fratel Jean Pierre rientrasse in Algeria solo per i funerali e la sepoltura dei suoi fratelli. Anche in questo caso, il suo resoconto è preciso e ricco di dettagli. A volte commuoventi. «La polizia e i militari non volevano lasciare entrare la gente del villaggio nel recinto del monastero perché rendessero omaggio ai fratelli. Alla fine, hanno accettato. Allora gli abitanti del villaggio sono entrati e ciascuno ha gettato un pugno di terra sulle loro tombe, come se fosse qualcuno di famiglia».
Non una parola di rabbia o di rancore. La memoria dei suoi confratelli continua a dare frutti in ciò che egli vive oggi in una comunità che porta in se stessa il senso più profondo dell’esperienza di Tibhirine. Nulla a che vedere con un museo, ma una testimonianza viva di una Chiesa dell’incontro, consacrata alla preghiera e aperta all’altro.