In Marocco ho sentito le urla di gioia più vere della mia vita e ho imparato a sentirmi grata
In Marocco ho sentito le urla di gioia più vere e sincere della mia vita. Erano quelle degli ospiti dell’orfanotrofio “Le Nid”, “Il Nido”, di Meknès all’arrivo di noi giovani volontari.
Da anni il mio sogno era fare un’esperienza di servizio in Africa e la scorsa estate sono riuscita a realizzarlo grazie a Mission Exposure, che unisce la crescita umana e cristiana con l’oggetto degli studi accademici dei partecipanti. Insieme ad altri nove volontari, accompagnati e ospitati da alcuni frati francescani che in Marocco operano da anni, ho prestato servizio presso un orfanotrofio gestito dalla Fondazione Rita Zniber, prendendomi cura di molti bambini abbandonati, alcuni con disabilità motorie e psichiche gravi. La mattina presto ci occupavamo dei più piccoli, che hanno bisogno di sentire il calore umano perché le nurse, che tutti chiamano “mamme”, sono poche e non sempre possono tenerli in braccio. Il resto della giornata era dedicato alle attività ricreative con i ragazzi più grandi. Ci siamo inventati tanti giochi, come il bowling con i bottiglioni di acqua, ma i momenti più belli erano quelli in cui ascoltavamo la musica e ballavamo insieme, o anche quando ci abbracciavamo in silenzio. Più delle attività, contava che noi fossimo lì per loro. Il reparto che ospita i bambini disabili è il più grande: sono una quarantina, di cui molti sono stati trovati in mezzo a una strada e per loro non c’è possibilità di affido. Ma può accadere che anche i piccoli normodotati siano “adottati” da famiglie che poi decidono di riconsegnarli.
«Perché sono qua?». È una domanda che mi sono posta più volte durante la mia permanenza a Meknès. «Perché proprio io? Perché adesso?».
Sono partita con l’idea di andare e cambiare tutto, poi quando sono arrivata in Marocco mi sono resa conto che non avrei cambiato niente della situazione in cui vivono quei bambini. Allora, mi sono sentita quasi in colpa. Tutti gli ospiti di “Le Nid” meriterebbero una vita diversa fuori dalle quattro mura in cui trascorrono la maggior parte del loro tempo, anche se sono fortunati a essere accolti in un luogo protetto, dove tutti si sentono fratelli, possono mangiare, fare la doccia e vivere in modo dignitoso. Per alcuni di loro la difficoltà principale è esprimersi: bisognerebbe sviluppare un progetto di comunicazione aumentativa alternativa, visto che oggi ci sono varie possibilità di interagire anche per chi ha delle disabilità gravi.
Per quanto mi riguarda, “cura” e “semplicità” sono due parole che restituiscono bene il portato dell’esperienza vissuta: ho imparato a stare di più nelle piccole cose, a riconoscere la fortuna di avere una famiglia tutta mia e ad apprezzare tutti quei beni non materiali per cui vale la pena vivere.