Dopo un decennio di conflitto, il nuovo governo dovrà traghettare il Paese al voto di dicembre. «Restano molte sfide, ma i segni di speranza sono concreti», spiega l’inviato della Farnesina Pasquale Ferrara
Vista da qui, dal lato opposto del Mediterraneo, la Libia ci appare come un “buco nero” di insicurezza, la terra pericolosa da cui partono i barconi dei disperati che con una frequenza impressionante finiscono per morire in mare, mentre le potenze straniere litigano per accaparrarsi il diritto di sfruttamento delle immense risorse energetiche e si contendono i ricchi contratti per la ricostruzione.
Le tragedie, in effetti, non mancano in questo Paese martoriato da un decennio di conflitto e anarchia, dove i fermenti delle cosiddette Primavere arabe si sono tradotti nella transizione dall’ultraquarantennale dittatura di Muammar Gheddafi, ucciso nel 2011, a una faida senza fine tra fazioni e milizie avverse, con l’intervento sempre più diretto sul campo di innumerevoli attori esterni, dalla Russia alla Turchia, dai Paesi del Golfo al vicino Egitto.
Oggi, tuttavia, qualcosa sta cambiando. Ed è lecito sperare che, nei prossimi mesi, il popolo libico possa pian piano ricominciare a respirare: «Direi che ho uno sguardo improntato a un “realismo fiducioso”», commenta Pasquale Ferrara, inviato speciale della Farnesina per la Libia. Una nomina arrivata a gennaio per questo diplomatico di lungo corso, nato a Caserta nel 1958, che negli ultimi quattro anni aveva servito come ambasciatore d’Italia in Algeria.
«Un risultato importantissimo è già il fatto che, oggi, pare del tutto accantonata l’ipotesi di una partizione del Paese in tre entità, presa in considerazione nel passato recente», nota Ferrara, che da anni affianca al servizio diplomatico un’assidua attività accademica (ha insegnato tra l’altro all’Università Sophia di Loppiano, legata al movimento dei Focolari), saggistica e di ricerca sulle relazioni internazionali. «In Libia siamo in piena transizione, non solo politica ma pure sul piano della sicurezza e della riunificazione delle istituzioni, anche economiche».
L’ottimismo dell’ex ambasciatore ad Algeri è legato ai recenti risultati del Libya Political Dialogue Forum, promosso dall’Onu, che riuniva i rappresentanti dei due Parlamenti di Tobruk e Tripoli e della società civile e che, dopo aver raggiunto un accordo lo scorso dicembre a Tunisi su una data per le elezioni – previste il prossimo 24 dicembre, settantesimo anniversario dell’indipendenza libica – a febbraio a Ginevra ha eletto a maggioranza le autorità transitorie che dovranno traghettare il Paese al voto.
La Libia ha finalmente voltato pagina?
«Il risultato di Ginevra è importante: si è scelto un primo ministro, Abdul Hamid Dbeibah, imprenditore 62enne di Misurata, che poi è riuscito a ottenere la fiducia del Parlamento in modo addirittura unanime. È stato anche eletto un Consiglio di presidenza formato da tre personalità, in rappresentanza delle tre grandi regioni del Paese: il presidente Mohamed al Manfi, originario della Cirenaica, e i due vice Abdullah Hussein al Lafi, della Tripolitania, e Musa al Kuni, del Fezzan, al Sud. Una volta costruita questa architettura, l’esecutivo ha cominciato a riunificare le istituzioni: oggi c’è un solo governo di unità nazionale, mentre quello dell’Est, che faceva riferimento al generale Khalifa Haftar, si è disciolto. Anche gli organismi finanziari si sono fusi nella Banca centrale libica. Rimane da compiere uno sforzo importante per l’unificazione delle forze di sicurezza».
Un compito arduo…
«Sul dossier opera un piccolo comitato militare congiunto, con cinque membri dell’Est e cinque dell’Ovest, che tra l’altro sta affrontando il problema delle milizie, per le quali sono previsti la smilitarizzazione e l’assorbimento nell’esercito e nella polizia. Un’operazione il cui grande tema sotteso resta quello della riconciliazione nazionale. Grazie a questo comitato lo scorso ottobre è stato raggiunto il cessate il fuoco che ha spianato la strada all’avvio del processo politico attuale: un percorso che oggi è stato fatto proprio da due risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ovviamente si tratta di un cammino ancora in corso e moltissimo resta da fare: per esempio bisogna capire su quale base costituzionale dovranno svolgersi queste elezioni, visto che al momento esiste una Carta scritta nel 2016 che secondo alcuni dovrebbe essere sottoposta a un referendum».
Come si vive oggi in Libia?
«C’è una grande stanchezza. Dopo un decennio di conflitto e insicurezza la gente ha un forte desiderio di normalità. E, considerando che si tratta solo di sei milioni di abitanti in una terra con ingenti risorse naturali, l’obiettivo di una vita dignitosa, in teoria, non dovrebbe essere difficile da raggiungere… Invece ancora oggi mancano servizi essenziali, come l’elettricità e persino l’acqua. Su questo ci sono grandi aspettative nei confronti del nuovo governo, che si sta muovendo insieme anche ad aziende estere (tra cui l’italiana Ansaldo). E poi, esiste una grande domanda di formazione da parte dei giovani. L’Italia in questi anni ha mantenuto piuttosto alto, nonostante tutto, il numero di borse di studio concesse a universitari libici, ma ora chiaramente le cose possono migliorare, soprattutto se in Libia ci sarà una struttura accademica in grado di porsi come interlocutore. Già esiste un fitto programma di insegnamento dell’italiano come lingua opzionale nelle scuole libiche, mentre speriamo che possa partire a breve un progetto di formazione dei formatori messo a punto dall’Università Ca’ Foscari di Venezia».
L’Italia può essere davvero un partner strategico per il Paese nordafricano?
«È fondamentale elaborare un piano nazionale per la Libia, insieme a esponenti locali di alto profilo. Nelle scorse settimane è venuta in visita in Italia la neo ministra degli esteri Najla al Mangoush, la prima donna a ricoprire tale incarico nella storia del suo Paese. Si tratta di una figura dal forte background accademico – insegnava Risoluzione dei conflitti negli Usa – e con una vera visione sul futuro della Libia. Un contesto a cui, comprensibilmente, in questi anni abbiamo guardato attraverso il triplice prisma deformante delle migrazioni, del tema energetico e del terrorismo. Oggi invece dobbiamo provare a vedere il quadro completo, per immaginare un ruolo efficace per il nostro Paese».
Su quali fronti?
«Per ora abbiamo proposto un accordo bilaterale per lo sviluppo delle energie rinnovabili e discusso di telecomunicazioni, mentre, sul fronte del sistema sanitario, il nostro Istituto superiore di Sanità e l’omologo libico hanno stretto un’intesa per migliorare le capacità gestionali e sviluppare programmi di ricerca congiunta. Anche il trattato di amicizia del 2008 resta uno strumento importante, perché prevede interventi come la realizzazione dell’autostrada costiera che dovrebbe correre dall’Est all’Ovest del Paese per 1.700 chilometri, con un evidente valore nell’ottica della riunificazione nazionale (oltre naturalmente all’indotto economico). Sull’opera c’è grande attesa da parte del nuovo governo e speriamo di poter partire con i lavori entro l’anno, ma serve un piano sia di sicurezza, che include lo sminamento della tratta, sia logistico, visto che molti materiali bisognerà portarli dall’Italia».
Senza contare che in molti, fuori dalla Libia, vorrebbero aspettare le elezioni prima di dare il via libera alla firma dei grandi contratti economici… Quanto pesano gli attori internazionali, con le loro agende spesso divergenti, sul presente e sul futuro del Paese?
«Sul fronte europeo mi sembra un segnale molto positivo la visita congiunta dei ministri degli Esteri italiano, francese e tedesco, che hanno messo da parte le oggettive divergenze passate. Per quanto riguarda i Paesi dell’area, a cominciare dall’Egitto, vedo un allineamento – che non era scontato – sull’obiettivo da raggiungere e su come arrivarci. Oggi non c’è alcun attore, dal Golfo alla Turchia, che abbia interesse a fare passi indietro rispetto alla stabilizzazione. Restano il tema dei mercenari stranieri, di cui la Libia chiede la partenza immediata, e quello della presenza di due grosse potenze militari: quella turca a Ovest e quella, seppur indiretta, russa, attraverso il gruppo Wagner. Una questione che deve portare i libici ad affrontare un discorso più ampio sulla loro sovranità nazionale».
Che spazio ha oggi la società civile?
«Premesso che, sotto Gheddafi, le organizzazioni civili non avevano margini perché non c’era libertà, alcune voci oggi esistono, in particolare giovani e donne, che infatti sono state incluse nel Forum dell’Onu sulla transizione e che ora partecipano al programma per la gestione del processo elettorale. Per sostenere questa componente della società è necessario aumentare i livelli della cosiddetta sicurezza umana, che riguarda non solo l’incolumità ma l’opportunità di studiare, avviare una start up, insomma avere una speranza per il futuro. Si tratta di questioni molto legate anche al tema della stabilizzazione del Paese, che passa attraverso lo sviluppo».
Resta il grande nodo delle violazioni dei diritti dei migranti, incluse le inadempienze sul fronte dei salvataggi in mare con le tragiche conseguenze che conosciamo e su cui, per la verità, l’Europa non è senza colpe. Che fare?
«Il mio primo pensiero non può che andare a chi continua a perire in mare inseguendo il sogno di una vita migliore. Di fronte a questa tragedia rimarco l’assoluta necessità di consolidare la transizione libica, perché tutti i discorsi che possiamo fare su una gestione intelligente e umana delle migrazioni reggono solo in presenza di un governo centralizzato. Finora, invece, avevamo due eserciti, una congerie di milizie e si era a un passo dallo smembramento del Paese. Al nuovo esecutivo abbiamo chiesto che nel memorandum d’intesa in vigore sia inserito un riferimento alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e che si vada verso il superamento del concetto di centro di detenzione, per noi inaccettabile. Il fatto che l’Organizzazione internazionale per le migrazioni e soprattutto l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati siano riusciti a rimettere piede in Libia è una buona notizia, così come lo è l’accordo per un corridoio umanitario, attraverso la Comunità di Sant’Egidio e la Tavola Valdese, per permettere l’arrivo controllato in Europa di alcune centinaia di migranti. Detto questo, non possiamo dimenticare che quello delle migrazioni dall’Africa è un tema vastissimo di politica internazionale, che chiama in causa i differenziali di sviluppo e tante forme di precarietà dei Paesi di partenza. Questioni che dobbiamo affrontare tutti insieme: quello libico è solo un tassello di un quadro molto più ampio».