A tre anni dalla scomparsa, l’immenso lavoro di padre Giovanni De Franceschi sui proverbi baulè della Costa d’Avorio diventa un libro, che sarà presentato anche a “Tuttaunaltrafesta”, il 20 maggio alle ore 16 al Pime di Milano
Nella lingua del popolo baulè della Costa d’Avorio, per dire “uomo” si usa il termine “sran”, “colui che tesse relazioni”. Ed è proprio attraverso una rete ampia e approfondita di relazioni che padre Giovanni De Franceschi, missionario del Pime deceduto il primo maggio del 2014 nei pressi di Abidjan, aveva raccolto un numero impressionante di proverbi baulè: 1.700 per la precisione. Il lavoro di una vita, tenace e infaticabile, proprio come quello di un vero collezionista che è sempre alla ricerca del pezzo mancante, il più raro e dunque il più prezioso. Ma non è per spirito di possesso che padre Giovanni ha messo insieme la sua specialissima collezione di proverbi: non per quantità ma per qualità, non per accumulo ma per andare più a fondo. Era il suo modo di entrare dentro quel mondo a cui era stato inviato come missionario e a cui si era appassionato anche come uomo di cultura.
Un mondo che ora , grazie alla famiglia, ci viene restituito da un piccolo ma pregevole libro, illustrato da Lorenzo Orlandi e pubblicato da Pimedit: “Cento proverbi baulè”, una selezione ragionata e accessibile a tutti dell’immensa raccolta di padre Giovanni, proposti in italiano e francese, ma anche in lingua locale, il baulè appunto. Perché vengano conosciuti qui in Italia, ma anche perché possano tornare “a casa”, in Costa d’Avorio.
«L’interesse per proverbi, racconti e miti mi ha portato ad avere una conoscenza più ampia della cultura africana – scriveva padre De Franceschi -: ho scoperto il modo di vivere i rapporti con Dio, la natura, i defunti, gli antenati, gli esseri viventi. L’uomo africano è veramente relazione, apertura, amore, comunione…».
«Io sono perché noi siamo», si usa dire in Africa. L’individuo non esiste come persona se non nella relazione. Io sono perché mi identifico in un insieme; sono perché sto con gli altri e mi definisco attraverso la comunità e le sue reti di prossimità e interdipendenza. Per “esserci”, tuttavia, bisogna usare le parole giuste. Parole che non sono meri strumenti di comunicazione. La parola in Africa come ovunque – è creatrice, plasma il mondo, lo fa esistere: dà vita alle cose e agli uomini. E dunque usare le parole giuste significa collocarsi nel giusto contesto e, appunto, tessere relazioni.
I proverbi, con la loro carica simbolica ed evocativa, con le loro metafore e allegorie, sono uno strumento privilegiato per collocarsi a pieno titolo all’interno di un popolo, rispettandone la cultura e le tradizioni. E, soprattutto, il linguaggio. Per provare a essere un po’ meno “stranieri” ed “estranei”. «Molti proverbi baulè ce lo ricordano – scriveva padre De Franceschi -: “La saggezza di una sola persona non è vera saggezza”. Oppure: “Un solo albero non fa una foresta”. Insomma, nessuno è un’isola, completo in se stesso. Nessuno è una casa completa, ma una pietra importante della costruzione. Dobbiamo fare un lavoro comunitario».
Questo valeva, ovviamente, anche per il suo impegno missionario, che si è sempre articolato attorno a un pilastro saldo e imprescindibile: l’inculturazione. Tema oggi quasi abbandonato, certamente non più centrale, nelle riflessioni e nella prassi, come lo è stato in passato. Come se la comunicazione del Vangelo – della Parola, appunto – non avesse più bisogno di trovare le parole vere, quelle che si possono scovare solo nel cuore più intimo di un popolo e di una cultura. Quelle per dire l’altro e l’altrove, l’uomo e Dio, la storia e il trascendente.
«L’inculturazione per me è una questione d’amore – scriveva padre De Franceschi in un testo inedito, proposto come introduzione a “Cento proverbi baulè” – perché “si vede bene solo col cuore”, come diceva il Piccolo Principe. Significa amare la propria natia cultura anzitutto, e amare la cultura del popolo cui si è inviati che, per me, è stato il popolo baulè. L’amore mi ha portato ad avere occhi nuovi con cui accostarmi alla loro cultura. Ho cercato di “farmi uno” con i baulè, e “di farmi tutto a tutti”, come ci suggerisce san Paolo. E il primo passo è stato farmi loro discepolo per entrare nella loro anima , imparandone innanzitutto la lingua».
«Una fede che non diventa cultura – diceva Giovanni Paolo II – è una fede che non è pienamente accolta, interamente pensata e fedelmente vissuta». Dal canto loro, i baulè dicono: «L’ombra dell’albero trapiantato non sarà mai dolce come quella dell’albero cresciuto sul posto». Per padre De Franceschi si trattava, dunque, di creare vie africane per il cristianesimo, anche prendendosi il rischio di tentare strade nuove. Strade lastricate di parole e simboli, di proverbi e immagini, dove il visibile e l’invisibile trovano un punto di incontro e rinviano a un messaggio che, per il credente, viene da Dio. Che è Parola vivente.