Il missionario betharramita padre Beniamino Gusmeroli racconta la situazione di uno dei Paesi più poveri del mondo alle prese con il Coronavirus. Tra tentativi di controllo e prove di prevenzione, lo Stato sta dimostrando la sua inadeguatezza; mentre la popolazione fatica a seguire le regole. A tamponare la situazione ci prova la Chiesa con un’opera capillare sul territorio, dove nel frattempo sono ricominciati scontri e violenze
In tutta la Repubblica Centrafricana, un Paese grande due volte l’Italia, ci sono tre respiratori polmonari.
Basterebbe questo dato per capire perché fin dall’inizio della diffusione a livello mondiale del Covid-19 chi vive in Centrafrica – a cominciare dai missionari italiani impegnati sul territorio – si è detto molto preoccupato che la pandemia si diffondesse in un Paese che non sarebbe in grado di gestire un’emergenza di tale portata.
Ad oggi, per fortuna, in Repubblica Centrafricana i contagi sono ancora relativamente pochi e – dalla metà di maggio, quando sono stati registrati i primi – questi si attestano attorno ai 1.800. I numeri da soli però raccontano poco e a spiegare meglio la situazione del Paese – che strutturalmente manca di strumenti e strategie di controllo compresi naturalmente i tamponi – ci pensa in una lettera padre Beniamino Gusmeroli, missionario betharramita, che da trent’anni vive in Centrafrica e che da qualche tempo opera a Bimbo, un quartiere a pochi chilometri dalla capitale Bangui.
«Ciò che fa particolare il caso dell’Africa – scrive padre Gusmeroli – e specie della Repubblica Centrafricana è il modo in cui la pandemia viene affrontata, sia a livello ufficiale sia a livello di coscienza della popolazione. Il Centrafrica è un Paese isolato, non ha sbocchi sul mare e il virus è stato introdotto nel nostro Paese dai camionisti trasportatori provenienti dal Camerun. Questi, giunti a destinazione a Bangui, prendevano alloggio nei quartieri e di là ha avuto inizio la diffusione».
Per arginare il contagio l’Organizzazione mondiale della sanità e il Ministero della sanità hanno emesso apposite direttive, chiuso i luoghi pubblici, le scuole, le attività commerciali e le chiese; inoltre sono aumentati i controlli alle frontiere e all’ingresso della capitale. «In realtà – precisa però il missionario – i controlli sono facilmente evitabili. Oltre agli autisti dei camion, un gran numero di camioncini, auto e moto passano la frontiera col Camerun e questi evitano facilmente la zona dei test passando per stradine e viuzze secondarie. Per raggiungere Bangui i camion trasportatori devono percorrere circa seicento chilometri, passando per cittadine e villaggi. Il percorso dura diversi giorni visto anche lo stato delle strade. Questo fatto ha favorito la diffusione del virus in molte zone. Un altro fattore che ha contribuito alla diffusione del contagio è il modo in cui vengono fatti i test: la persona fa il tampone, lascia un recapito e poi torna a casa, ricominciando le sue relazioni e il suo lavoro; chi è positivo al test viene avvertito dopo 21 giorni. Questa persona dovrebbe recarsi all’Institut Pasteur, che si trova nella capitale e che è l’unico centro abilitato per le analisi. Immaginate voi com’è possibile che chi ha i sintomi o è positivo al test percorra fino a seicento chilometri per curarsi…»
E come reagisce la popolazione alla pandemia? «Le notizie di infettati e morti relative ai Paesi vicini, dell’Africa e dei Paesi più toccati dal virus (compresa l’Italia) sono conosciute e arrivano via radio e televisione. Contrariamente a quanto succede in altri Paesi però in pratica la vita sociale non ha subito nessuna variazione: questo per diversi fattori. Di fatto non c’è nessun distanziamento, i mercati piccoli e grandi sono sempre rimasti aperti, di mascherine nemmeno a parlarne… Qui il ritmo della vita sociale ed economica è particolare: per la stragrande maggioranza della popolazione è necessario recarsi al mercato dei quartieri superaffollati e acquistare o vendere giornalmente la poca quantità di prodotti agricoli provenienti dai campi o da portare a casa da cucinare. Inoltre la giornata non si passa all’interno delle case, ma all’aperto, nelle strade, nei mercati. Nei quartieri, praticamente in ogni cortile, si sono sviluppati dei medicinali preventivi fai da te, a base di erbe, scorza di alberi, radici e foglie particolari. La maggior parte della popolazione assume questi intrugli quasi quotidianamente e si sente protetto».
Il governo ha provato a sensibilizzare la gente alle misure per limitare il virus. «Durante il primo periodo – spiega padre Beniamino – sono state dislocate delle pattuglie della polizia nei posti di assembramento ma spesso i poliziotti sono stati insultati, a volte malmenati. La maggior parte dei positivi non si reca all’ospedale perché – anche se in teoria le cure sono gratis – di fatto è la famiglia a dover prendersi cura di tutto, compreso il nutrimento durante il ricovero. Lo Stato non si è mostrato all’altezza della situazione, nonostante aiuti siano stati inviati da varie parti. A tutto ciò si aggiunge l’opinione diffusa tra la gente che si tratti di una messa in scena da parte dello Stato per ottenere finanziamenti che però non arrivano alla popolazione…»
In questa situazione a fare un po’ di prevenzione ci pensa la Chiesa che vive nei quartieri. La Caritas di Bouar, per esempio, dall’inizio del mese di aprile ha iniziato a visitare le parrocchie della diocesi incontrando i membri dei comitati parrocchiali, i parroci e alcuni rappresentanti dei movimenti. In questi incontri, grazie anche a opuscoli e poster appositi, si è cercato di sensibilizzare la popolazione e di dare informazioni chiare sul virus, sulla sua diffusione nel mondo e in Africa, spiegando le misure da adottare per limitare la diffusione della pandemia, le cure e le difficoltà del trattamento in Centrafrica. A ogni parrocchia la Caritas di Bouar ha poi distribuito pacchi alimentari e dispositivi igienici e di protezione come guanti, mascherine, sapone e candeggina. Almeno nelle città e nei villaggi più grandi è stato deciso di fare un censimento per identificare gli anziani, i malati di lunga durata, le persone con disabilità gravi e le famiglie più povere: nel caso in cui l’epidemia colpisca queste aree, i dati consentiranno di monitorare le persone vulnerabili, di indirizzarle alle strutture sanitarie in caso di malattia, di seguirle a casa, di curarle e dar loro da mangiare. «La Chiesa è la popolazione – spiega padre Beniamino – quindi dovrebbe aver un impatto maggiore e godere di maggior fiducia sulla gente. Di fatto però abbiamo ben pochi mezzi… La Caritas ha avuto degli aiuti da parte della Caritas internazionale per fare prevenzione; in questo periodo siamo nella fase della formazione dei volontari delle Caritas parrocchiali. In Africa, come da molte altre parti, più che i dati scientifici e le pianificazioni perfette, ciò che conta e ha maggior impatto sulle popolazioni è il rapporto di fiducia».
Come se non bastasse lunedì 8 giugno il gruppo di ribelli 3R, uno dei 14 che sono a piede libero nel Paese dal 2013, anno dell’inizio della guerra civile, si è sfilato dall’accordo di pace firmato con il governo nel febbraio 2019 grazie alla mediazione delle Nazioni Unite e ha ripreso la sua attività di saccheggi e violenze sul territorio.
Nella foto: il cardinale di Bangui Diedounné Nzapalainga in visita alla parrocchia di Bimbo (Bangui) il 18 maggio scorso