La testimonianza del dottor Antonio Puccio – chirurgo dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo – che dal 2008 spende ogni anno le sue ferie per curare il labbro leporino all’Hewo Hospital di Quiha, nella zona oggi teatro del conflitto tra il Governo federale di Addis Abeba e il Fronte popolare di liberazione tigrino. «Temiamo sia stato danneggiato ma è tuttora impossibile comunicare»
Mettere le proprie competenze mediche al servizio dei bambini del Tigray. È la missione del dottor Antonino Puccio, 42 anni, palermitano, chirurgo maxillo facciale dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo: dal 2008 passa le sue ferie nel nord dell’Etiopia, nella regione teatro del conflitto tra il Fronte di liberazione popolare tigrino e il Governo federale di Addis Abeba.
«Assieme ad altri colleghi, opero come volontario all’Hewo Hospital di Quiha, non lontano dal capoluogo del Tigray, Macallè, impegnato in missioni mediche e chirurgiche umanitarie – racconta il dottor Puccio -: con l’aiuto di altre associazioni italiane, cerchiamo di portare i mezzi necessari per curare la popolazione di questo angolo di mondo».
Il dottor Puccio vola nel Tigray per una media di due volte l’anno: vi è stato anche lo scorso gennaio, per poi tornare all’ospedale di Bergamo e combattere in prima linea contro il Covid-19. «La struttura in cui operiamo, l’Hewo Hospital, ha una storia di circa quarant’anni. La fondarono, come lebbrosario, due volontari italiani: i coniugi Franca e Carlo Travaglino. Oggi è un ospedale totalmente gratuito. Un’eccezione per il sistema sanitario etiope, a metà tra il pubblico e il privato. Tante persone vivono nella più assoluta povertà: se si ammalano, non possono permettersi di pagare le cure. Cerchiamo di assistere più pazienti possibili. Ogni missione dura in media una decina di giorni: in quel periodo riusciamo a completare circa 50 interventi chirurgici».
Nel 2018, dopo diverse missioni nel Tigray, il dottor Puccio fonda l’associazione Caramella Smile, da lui presieduta. «Si tratta di un progetto per la diagnosi e la cura di malformazioni cranio-facciali, come il labbro leporino. L’associazione finanzia missioni chirurgiche e mediche, rivolte perlopiù a pazienti in età pediatrica, promuove un tipo di benessere psicofisico globale e regala un sorriso a chi non può per deformità fisica o per tristezza interiore».
La popolazione del Tigray, però, non ha bisogno solo di cure. «I problemi sono davvero tanti. Nei mesi scorsi, un’invasione di cavallette aveva colpito l’Etiopia, mettendone in ginocchio l’economia agricola. La gente vive nella più estrema povertà. Con il recente conflitto interno la situazione è precipitata».
La guerra tra Fronte di liberazione popolare e Governo federale, iniziata lo scorso novembre, ha portato alla capitolazione di Macallè, controllata dai tigrini. «Temiamo che, durante gli scontri, sia stato danneggiato anche l’ospedale. Ma non abbiamo alcuna certezza. È impossibile comunicare con il Tigray perché sono state interrotte tutte le linee telefoniche e manca l’elettricità. Alcuni nostri contatti sul luogo, riparati nei campi profughi del Sudan, ci hanno fatto sapere la gravità della situazione. Invocano il nostro aiuto. Il mondo deve sapere quello che sta accadendo nel Tigray».