I recenti attacchi contro cittadini rwandesi gettano un’ombra su uno dei Paesi più pacifici d’Africa che nella sua storia è stato rifugio per molte popolazioni: una situazione su cui influiscono anche povertà, disoccupazione e costo della vita.
«Terra di lavoro e gioia in unità»: così lo Zambia è descritto nelle parole del suo inno nazionale e così, a lungo, lo hanno considerato anche le migliaia di cittadini di altri Stati che vi hanno trovato rifugio. Dagli angolani negli anni Sessanta, ai sudafricani in fuga dal regime nazionalista bianco, ai malawiani vittime della dittatura di Kamuzu Banda nei decenni successivi. Tra le ultime popolazioni a stabilirsi nel Paese c’è una comunità rwandese, che nei giorni immediatamente successivi al genocidio era arrivata a contare 11mila persone, numero sceso nel corso del tempo a circa 4mila unità.
Anche se poco numerosi, i rwandesi hanno però avuto successo nel Paese: «Sono attivi nel commercio, hanno negozi in città e nei compounds e un buon giro d’affari», spiega da Lusaka il volontario italiano Diego Cassinelli, che con la onlus In&Out of the Ghetto porta avanti progetti sociali nell’area di Bauleni. Qui e in altri compounds, gli insediamenti informali dove vive oltre la metà della popolazione cittadina, si sono verificati recentemente assalti – una sessantina – alle attività commerciali gestite dai rwandesi, che hanno provocato anche cinque morti.
L’accaduto sembra essere legato agli omicidi commessi, con presunti scopi rituali, in altre baraccopoli, tra cui quella di Lilanda. «Almeno otto persone sono state uccise: uno, un ragazzo, era mio parrocchiano. – racconta padre Anthony Mkhari, missionario comboniano, che svolge il suo ministero nel quartiere – e sembra che tra i primi indagati ci fosse un rwandese». Sui disordini potrebbe aver pesato, però, anche la crisi economica in corso. «Molti hanno partecipato agli assalti ai negozi solo per poter poi saccheggiare la merce, non per xenofobia», testimonia Cassinelli.
Pur ricordando che il disagio sociale «non giustifica comportamenti violenti», anche la conferenza episcopale cattolica ha sottolineato l’impatto di «alti livelli di povertà, disoccupazione e costo delle materie prime», invitando a «trovare soluzioni». A rischio, in effetti, potrebbe essere la pace sociale per cui lo Zambia è stato finora un modello in Africa: indipendente dal 1964, il Paese non ha mai combattuto una guerra né subito un golpe. Gli stessi vescovi hanno definito «non zambiani» gli ultimi eventi, che hanno trovato un bersaglio facile negli stranieri.
«Come Chiesa – chiarisce padre Mkhari – dobbiamo ribadire che non si tratta di nemici, ma di persone che hanno cercato rifugio qui e vogliono la pace». Un compito che i religiosi hanno deciso di svolgere soprattutto con l’esempio. La chiesa di S. Ignazio ha dato riparo a oltre 300 rwandesi e a visitarli è arrivato anche il presidente del pontificio consiglio Giustizia e Pace, il cardinale Peter Turkson, che ha compiuto una donazione a nome di Papa Francesco. Ma il clero locale può essere prezioso anche nel ricostruire quotidianamente la fiducia: «Da poco sono uscito da un negozio gestito da rwandesi, dove ho fatto spese, dopo averli ascoltati. Anche altri lo fanno. – racconta da Lilanda padre Mkhari – È importante che la vita continui ad essere quella pacifica di prima».